è arrivato il momento del debutto sulla lunga distanza per i Fake Names, un supergruppo nato poco più di quattro anni fa dal desiderio di tre amici di divertirsi insieme dopo aver trascorso decenni sui palcoscenici di mezzo mondo. Per un brutto scherzo del destino il 2020 ha dato a Brian Baker (Bad Religion, Minor Threat, Dag Nasty), Michael Hampton (S.O.A.) e Johnny Temple (Girls Against Boys) la possibilità  di prendersi una pausa dai tour e allora eccoli qua, pronti a tirarci su di morale con una mezz’oretta scarsa di punk rock old school imbevuto di melodie a presa rapida e sapori power pop aspri ma deliziosi.

La presenza di un pezzo da novanta come Dennis Lyxzèn (Refused, The (International) Noise Conspiracy) al microfono regala un discreto fascino garage al debutto di questi arzilli campioni degli accordi di quinta. La voce del cantante svedese, come al solito straordinariamente potente e sgraziata, sembra quasi infondere un senso di costante pericolo a dieci tracce che già  di per sè suonano assai eccitanti, frutto della perfetta chimica tra i quattro componenti della band.

Il breve ma intenso viaggio dei Fake Names parte con “All For Sale”, una grintosa critica agli effetti tossici del capitalismo che si fa notare principalmente per gli intrecci armonici tra le chitarre di Baker e Hampton. I livelli di adrenalina sono altissimi: di minuto in minuto si fanno sempre più intensi, come dimostrano le due bombe di energia punk che rispondono ai titoli “Driver” e “Being Them”.

Il tradizionale impegno politico di Lyxzèn emerge con prepotenza tra gli echi hardcore della gioiosa “Brick”, una canzone anti-establishment che potrebbe funzionare a meraviglia dal vivo. Si stringe il cuore a pensare che corriamo il rischio di vivere in un mondo in cui i concerti neanche si potranno più fare; senza sprofondare nella tristezza, consoliamoci con il retrogusto post-punk di “Darkest Days”, la carica garage di una “Heavy Feather” dalle tinte vintage e le scoppiettanti melodie power pop di “This Is Nothing” e dell’esplosiva “Lost Cause”. Un disco semplice, privo di effetti speciali o diavolerie tecnologiche, che senza strabiliare conforta e diverte, come solo il rock più genuino e appassionato sa fare.