Giusta intuizione quella dei due producer MiK Drake e JaK Turn, bravi a giocare a carte coperte sfruttando l’immaginario simil-Daft Punk e a scorporare una vocalità baritonale – vicina a quella di Francesco Bianconi dei Baustelle – inserendola in un contesto robotico deumanizzato.
Il fulcro dell’album è distribuito bene su sei tracce (con intro e outro strumentali) dai confini sottili, in favore di una continuità narrativa che parte a gamba tesa con «Non ho più voglia di questa musica, non ho più voglia di questa mia città» (“Backgammon”), segnale di un processo di evasione dalle delimitazioni, musicali e geografiche (i due si dividono tra Roma e Taranto). L’elettronica di fondo è una presenza cupa (“Benedetto”, “Giorni di vento”) a sostegno di una visione della tecnologia sempre più distopica, utile nella sua quotidianità, ma logorante nel rapporto umano, senza perdersi nella retorica pessimistica, ma con uno sguardo agli incroci che ogni giorno si affrontano, le occasioni perse e le scelte azzeccate. I motivi strumentali si fanno dinamici, in continuo movimento e rimandano a un immaginario retro-futurista, un po’ come guardare “I pronipoti (The Jetsons)” alle prese con i social (“Bliss (just be)”).
“Backgammon Vol.1” è una macchina pronta all’I.A., in un mondo di numeri, likes, views estremizzando la spersonalizzazione dell’uomo; il mondo distopico immaginato da tanti non è lontano, ma ancora dietro la musica c’è vita.