Ora, se esce il nuovo disco di Colapesce io impazzisco, perchè il cantautore siciliano è uno dei fari luminosi di questa scena cantautorale ammalata di passatismo e di latente necrofilia, sempre impegnata ad onorare eroi che il tempo ha già  consegnato alla Storia piuttosto che accorgersi dei suoi più giovani figli, servi disobbedienti alle leggi del branco.

Stessa cosa, se esce il nuovo disco di Dimartino: ma come si fa essere così puri, a tratti spirituali, e così allo stesso tempo terreni, profani, tellurici come sa essere il buon Antonio, unguento per lo spirito e scarica di dopamina che si invola verso il basso ventre, dopo aver corteggiato la testa e le idee?

Ecco che allora si può intuire quanto un cercatore di bellezza come me (condannato a lunghi digiuni e crisi di astinenza, in questo 2020 di aborti musicali e di defezioni di lusso per tutelare tasche piene di anime un po’ più vuote, e più nude di fronte a pubblici silenziosamente delusi) possa essere imploso in mille e più gocce di splendore qualche venerdì fa, all’uscita tanto attesa e agognata di “I Mortali”; dopotutto, dalla sincera urgenza di comunicazione del duo siculo non poteva che derivare quello slancio filantropico e caldo che mancava da troppo tempo al mercato musicale, impegnato ad impegnarci in ascolti settimanali che sanno di autopsie, di funerali dell’ingegno nelle processioni dei Venerdì (poco) Santi della Via Crucis del nuovo pop.

Insomma, “I Mortali” ricorda a tutti i nostalgici che il domani ha cuore antico, e che esistono ancora guerrieri con piedi nel passato e sguardi dritti aperti sul futuro; Colapesce e Dimartino sono vivi, e il titolo scelto per il frutto del loro sodalizio sembra ricordare all’ascoltatore che i due cantautori non vengono da mondi lontani, ma proprio dalla landa desolata di un presente atrofizzato in pose comode e pasto digeriti, per stomaci collassati.

Ed è così che ascoltare “I Mortali” significa maneggiare un atto di resistenza spontanea, privo degli appesantimenti della retorica o di sofismi intellettualoidi, messi lì solo per ricordare al mondo la giusta definizione di cantautore; per questo, “Il Prossimo Semestre” – prima traccia dell’album, quasi iconico tributo al lirismo di  Piero Ciampi – diventa manifesto programmatico della nuova musica d’autore, in cerca di un pubblico che dia un senso al dissenso gentile di Colapesce e Dimartino,  perchè non esiste libertà  senza partecipazione e la differenza tra un monologo fine a sè stesso e ogni singola traccia di “I Mortali” è che – alla base della scrittura dei due – vi sia una precisa idea di destinatario, di ascoltatore in potenza non perchè casuale, ma perchè da ri-educare nell’era dell’analfabetismo istituzionalizzato.

La grammatica del cuore si fa strada a colpi di poesia, e con picchi di umanità  quasi vertiginosi: tra le pieghe di “Rosa e Olindo” sorride Andrea Parodi soddisfatto canticchiando fra sè e sè la sua “No Potho Reposare”, mentre Colapesce e Dimartino adattano alla storia della coppia criminale più famosa della cronaca recente – con la violenza squassante e quasi disturbante che solo i poeti sanno praticare – una delle principali massime deandreiane, riscoprendo l’amore proprio laddove la pietà  smette di cedere al rancore.

Il trio tutto siciliano con Carmen Consoli su “Luna Araba” regala una hit d’alto ingegno a quest’estate acida e surreale, mentre la produzione del brano prende un respiro internazionale a cavallo di sonorità  che fanno pensare all’oltreoceano, nel segno di una navigazione sicura che non teme Colonne d’Ercole, nè limiti imposti da chi non riuscirebbe mai a pensare a braccetto Tame Impala e cantuautorato italiano; “Cicale” è l’inno all’amicizia di due randagi impegnati ad ammirare il rogo dell’ipocrisia riparati da coscienze pure e idee chiare, mentre “Parole d’acqua” chiarisce ogni dubbio sull’obbiettivo eversivo di Dimartino e Colapesce, impegnati a liberarsi da certezze che si rivelano gabbie nell’eterno ritorno di quesiti abbacinanti, boe abbandonate al largo per naufraghi di professione: “se le ipotesi fossero germogli, io le annaffierei dando dignità  a queste parole d’acqua“.

Ed è l’acqua l’elemento principale di un ascolto che sa scorrere erodendo i fianchi dell’ascoltatore, che altro non può fare che immergersi in “I Mortali” e nel moto perpetuo di una scrittura che non vuole regalarsi momenti di pausa, preferendo ritrarsi come marea prima di stendersi ancora su spiagge smemorate, cancellando ogni volta i segni del vento e degli eventi; “Raramente” nasconde in piena vista un inciso che farebbe impazzire Loretta Goggi, mentre “L’ultimo giorno” lascia impazzare l’alba sulla notte dei nostri sensi intorpiditi da terapie del dolore e canzoni scritte per lenire, piuttosto che per curare: le parole diventano edera rampicante che infestando colora, inverdisce e dà  carattere a condominii di cuori vuoti, ricordandoci che fine del mondo sarebbe senza queste cose giuste, dette al giusto momento.

“Noia Mortale” accompagna verso le ultime risacche pop del disco, con piglio da Capitani Coraggiosi (proprio loro, e senza paura) abbracciati alla vela degli anni Ottanta, mentre intorno sirene lussuriose intonano Tommaso Paradiso, impregnandone di echi – e nemmeno troppo lontani – la stesura del brano; “Adolescenza nera” riporta il baricentro nell’empireo, attraverso immagini potenti rese pugni nello stomaco dal supporto di una produzione (curata da Mace) che è gioiello sulla dorata corona di spine che è “I Mortali”.

“Majorana” diventa così la chiosa perfetta per un disco che ha lo stesso profumo dell’estate nel Grande Inverno delle Idee, e che nell’incastro funambolico delle voci di Colapesce e Dimartino sembra voler dimostrare al mondo come – al riparo da luci stroboscopiche e fuori dalla ribalta dei palcoscenici – le canzoni belle abbiano ancora bisogno solo di verità  e sentimento per tenersi in piedi, sull’equilibrio di sole sei corde.

Insomma, “I Mortali” si rivela album che già  sa di reliquiario per la memoria dei posteri, capolavoro di scrittura e di sensibilità  capace di portare – finalmente, e con merito – le due firme isolane a mettere il proprio sigillo su una pagina di Storia che vale gli ultimi anni di vacanza della poesia in Italia (fatta eccezione per alcune sparute perle di bellezze), tornando ad affamare di bellezza l’ascoltatore.

Perchè si sa, l’appetito vien mangiando. O almeno, così confidiamo che sia.