Chiamarsi Hugo Morales significa, in primo luogo, essere già  nelle orecchie di tanti, anche se in pochi conoscono il tuo nome: Morales, infatti, è la colonna sonora di uno dei gol più iconici della storia del calcio moderno, essendo il telecronista del “Gol del Secolo” oltre che di quella mano galeotta di Diego Armando Maradona contro l’Inghilterra ai Mondiali ’86,   rete a metà  tra il ghigno beffardo e l’urlo di rivalsa di un’intera nazione impegnata a soffiar via la Coppa del Mondo a quelli che erano visti come i pronipoti dei colonialismo britannico, in romantico e sudamericanissimo slancio rivoluzionario.

Ed è un po’ questa la sensazione che coglie l’ascoltatore alla prima riproduzione di “Oceano”, il secondo disco di Hugo Morales per Tazzina Dischi: quella di aver già  sentito, vissuto e divorato ognuna delle nove tracce dell’album, perchè preesistenti in una dimensione empirea, lontana, sognante della nostra sub-coscienza; e allora, ad ogni brano scattano una serie di rimandi a galassie lontane, fatte di sintetizzatori, sonorizzazioni di film muti, psichedelia e raduni hippy, mentre all’orizzonte si delinea l’alba di una nuova Isola di Wight nei ventisei minuti di viaggio attraverso un allucinato (e come altro poteva essere?) ritorno negli anni Settanta.

Ed è così che, seduto sulle rive del tuo ascolto necessariamente onirico, ti sorprendi a guardar sfilare parate di delfini e balene vestite come i Beatles di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, mentre un gruppetto emergente (“ma quelli sono proprio gli Skiantos?!”) sta suonando poco più in là  una rivisitazione demenziale di un vecchio brano della Caselli; in preda a deliri da peyote, ti avvicini al bancone di un bar – naturalmente, abusivo – dove un capannello di divinità  antiche sta sorseggiando margarita, applaudendo sghignazzante e incantato Afrodite e Calipso, che poco più in là  si muovono avvinghiate su ritmi trance sparati da un Moby alle prime armi, ma con le idee già  ben chiare. A tenerti ancorato ad una parvenza di realtà , la voce oracolare del telecronista di InghilterraArgentina che intona testi strani, ma certo meno assurdi di tutta la visione circostante.

Risvegliarsi, alla fine di questa mezz’ora di suoni sospesi, canti di pesci, risacche di sintetizzatori e loop lisergici è shock non da poco, ma il miracolo della tecnologia – nell’era del rialzo dei costi di ogni offerta del mercato (esperienze allucinogene comprese) – rende possibile ritornare al punto d’inizio e ripetere da capo quel trip musicale che è “Oceano”, schiacciando semplicemente il tasto play.

Ottimo ritorno per il cantautore umbro, che sforna un album pronto a rivelasi ottimo sostitutivo al consumo di visioni in pillole, perchè certe cose rimangono magiche solo negli anni in cui la magia era tutto intorno, e in primis sui palchi; tutto il resto, è nostalgismo. Certo che dentro “Oceano”, di nostalgia, ce n’è tanta, ma proposta in maniera leggera, intelligente e mai emulativa; e allora Hugo Morales torna ad confermarsi voce di un passato che ci appartiene, anche se a volte ne dimentichiamo il nome.