Ibisco è un fenomeno.

Non comincerei mai così una recensione se non avessi la certezza di essermi trovato fra le mani qualcosa di realmente convincente, finalmente, e dannatamente poetico; e allora, nell’era delle paillettes e dei lustrini come sostituivi delle stelle – in questa galassia di meteore – la luce di “Meduse” basta ad illuminare la parte più oscura della nostra luna musicale, a irrorare di luce le tenebre di un mercato immerso all’interno dei suoi buchi neri.

Non serve molto, ad Ibisco, per convincere già  tutti al suo esordio: una produzione scarna che si fa volano di una voce decisa e priva di riferimenti nazionali (per la sua particolare timbrica) ma di certo figlia di ascolti attenti del cantautorato nostrano (Battisti su tutti), una scrittura onirica ma mai casuale, ricca di immagini e colpi d’occhio capaci di rendere “Meduse” la colonna sonora del videoclip della vostra vita – o almeno, della mia. In mezzo, tra un colpo d’autore e l’altro, naturali richiami ad una scena itpop che si presenta, in Ibisco, digerita ed espulsa attraverso una poetica diversa, che non ha paura a chiamare per nome città  storiche dell’indie ma in una modalità  nuova, meno italiana, meno provinciale: c’è tanto sogno (a tratti, distopico) americano nel singolo d’esordio del cantautore bolognese, tanta voglia di conquistare il pubblico nostrano seducendolo, per poi trasformarlo.

Insomma, a me “Meduse” è piaciuta un sacco, e per uno come me – a cui capita a volte di scrivere canzoni e pensa di saperlo fare anche discretamente bene, da bravo narciso quale sono – l’esistenza di Ibisco è un grosso colpo basso all’autostima; ma ben vengano canzoni che sappiano metterci in discussione, e spingerci a pensarci migliori, o a credere di poterlo essere.