Rufus Wainwright è tornato! E non si tratta solamente di un ritorno discografico, perchè con “Unfollow the Rules”, il cantautore naturalizzato canadese (ma che vive sopra le colline di Los Angeles) ha imboccato nuovamente la via del pop più nobile, quello che agli inizi della sua carriera, inaugurata da un brillante album omonimo, lo aveva fatto emergere fragorosamente come uno degli artisti più interessanti della sua generazione.

Intendiamoci, queste dodici nuove canzoni non reggono il confronto nell’insieme con i suoi capolavori riconosciuti, compresi nel binomio “Want One”/”Want Two” – pubblicati nella prima metà  degli anni zero – , ma ci riconsegnano un autore assai ispirato e pienamente ritrovato dopo le divagazioni sinfoniche dell’opera “Prima Donna” e del progetto dedicato ai sonetti di Shakespeare. Lavori ingegnosi e ben strutturati ma molto lontani dalla sua indole e da quell’autenticità  che è sempre stata palese nei suoi dischi.

Qui Wainwright è tornato in confini rassicuranti, che nel suo caso tratteggiano comunque lande di terra vaste e policrome.

E’ soprattutto un artista rappacificato ed emotivamente stabile quello che traspare nei solchi di brani intensi e caldi, quali l’iniziale “Trouble In Paradise”, baciata da grazia e innata classe interpretativa, o la multiforme e fluida “Damsel In Distress” che la segue in scaletta e che con i suoi cenni autobiografici ci regala la migliore fotografia dell’album.

L’atmosfera cambia improvvisamente con il brano eponimo, una lunga nenia, a tratti commovente grazie a un delizioso pianoforte che si prende sulle spalle la canzone e a un cantato sublime, in cui il Nostro torna a mettersi a nudo.

La saltellante “You Ain’t Big” – che ha il gravoso compito di venire dopo – appare di contro il pezzo più debole del lotto, mentre già  in “Romantical Man” tornano prepotentemente in superficie le peculiarità  di un songwriter capace di emozionare a ogni verso.

A mio avviso la prima parte del disco, che vorrebbe fungere da apripista per il fulcro dell’intero lavoro, finisce invece per essere quella più interessante: dalla sesta traccia “Peaceful Afternoon” all’ultima “Alone Time”, vengono infatti confermate le buone intuizioni (e intenzioni) già  passate in rassegna, con il picco emotivo da collocare in un brano come “Every Morning Madness”, suggestivo, evocativo, un po’ sinistro ma assolutamente ipnotico e in grado di rapirti.

Ascoltare Rufus Wainwright in registri sonori come questo è puro piacere: seguire la sua incredibile voce che si arrampica, si aggroviglia e poi se ne esce più pulita di prima è una delizia e un’esperienza che fa bene al cuore.

Sarà  magari solo una mia impressione ma non mi pare che il suo disco fosse in fondo poi così atteso, e invece zitto zitto, senza molti proclami, Rufus Wainwright ha confezionato uno degli album più affascinanti e raffinati dell’anno.