Giacomo De Rosa è il leader di tutti i Peter Pan, il capopopolo dei sognatori (quelli narcolettici, che non svegli nemmeno a colpi di cannone o peggio ancora di mainstream) e la preghiera silenziosa di un pubblico che nella nicchia sta stretto, perso nei cunicoli della memoria e nell’ascolto ossessivo (e di ripiego, vista l’assenza di novità  di spessore) dei grandi nomi del passato che altro non fanno che rendere l’angusto spazio della nicchia, appunto, più simile a quello di un loculo, nel labirinto caotico e stantio della catacomba in cui – troppo spesso – finisce col chiudersi il nuovo cantautorato italiano.

De Rosa, invece, se ne infischia del pubblico di massa, dell’addetto al settore, degli amici del bar sotto casa e delle pischellette che oggi sembrano sempre più interessate a cuori infranti di plastica cantati da lacrimatori a cottimo che al sangue e al sudore dei veri maschi alfa, quelli che sanno piangere per davvero e che piangono perchè la consapevolezza distrugge, e la Verità  (o meglio, la sua ricerca) affatica. Ecco, De Rosa fa parte di questa ridotta pletora di paladini della fede, di officianti di un rito che in pochi ancora ricordano e che – diciamocelo – non è mai stato troppo frequentato dal sollazzato pubblico italiano se non alle parate funebri utili a celebrare l’illustre morto di turno e l’appartenenza ad una qualche èlite sociale; perchè noi siamo così, popolo strano: troppo impegnato ad incensare morti per preservare i vivi.

De Rosa, che invece è vivo e vegeto, continua a darsi da fare per soddisfare il desiderio necrofilo del pubblico medio, ma con enorme vitalità ; sì, perchè di Giacomo De Rosa ne sono esistiti diversi, con numerose sfaccettature e sfumature tutte diverse ma coerenti alla ricerca estetica di un funambolo di parola, sghembo e dinoccolato (nell’era in cui tutti i nuovi artisti indie provano ad essere più “clochard” possibile) più per natura che per scelta stilistica, sempre attento a dire una parola di più che non sia una parola di troppo. Così mi era sembrato essere, quanto meno, l’ascolto di “Il cuore oltre l’Aurelia”, album del 2019 e primo vagito del cantautore con il suo nome di battesimo, frutto dell’ennesima trasformazione del menestrello toscano in qualcosa che, in “Segnali di fumo”, pare aver trovato una sua definitiva uscita dalla crisalide dello studio e della progettazione.

“Segnali di fumo” nasce come baluardo contro la rabbia dei venti (e dei Trenta, vista l’anagrafe del buon Giacomo) sin dalla sua pubblicazione: a chi sarebbe mai venuto in mente di tirar fuori un progetto così denso e ricco di contenuti in quarantena? De Rosa invece capisce che è il momento giusto: in un frangente in cui le nuvole sembrano raggiungere pedici di altitudine davvero preoccupanti e il temporale della pandemia non dà  segno di recessione, “Segnali di fumo” diventa la colonna sonora di una ricerca mai conclusa, perchè non esiste risposta chiara e precisa che non si riveli gabbia, scatola vuota che altro non fa che chiudere le finestre del cervello. Nell’era della prigionia obbligata, De Rosa partorisce un buon disco, che sa di altrove e di fuga rispetto alla monotonia delle offerte da discount della musica: ogni traccia del disco è suonata con una preparazione (in fase di scrittura così come di performazione) che non trovi in saldo sui tutorial di You Tube, e ad ogni passo l’ascolto si inerpica verso vie sconosciute, non semplici. Sono lontani i giardini fioriti delle playlist: in “Segnali di fumo” la mente vaga per selve oscure, sebbene il novello virgilio De Rosa cerchi di tenere le redini del nostro errare (in tutti i sensi etimologicamente deducibili) con voce buona, addolcita – nella sua opera di continua archittazione verbale e, perchè no, a tratti persin verbosa – da quel rotacismo simpatico quanto elegante, privo della rabbia iconoclasta gucciniana ma ammicante piuttosto verso declinazioni più riflessive e più introverse, senza per questo perdere di ironia.

Insomma, il mondo è quello del cantautorato vecchia scuola (fosse solo, e qui va detto, per l’impeccabile e quasi ardito uso di un lessico nuovo perchè desueto, e quasi obliato) ma senza perdere di vista le nuove frontiere del pop: il mio pezzo preferito rimane “Dea dei misteri” con le sue movenze sospese che ricordando un po’ Alan Sorrenti un po’ Colombre, ma adoro il piglio di “Bellezza sovrana” e l’intellettualismo (di concetto, prima che di linguaggio) di “Le sacre sponde”. Insomma, un ottimo ritorno per un lavoro ben scritto, ben pensato e coraggioso.

E un po’ Peter Pan, ora, torno a sentirmi anche io. Chissà  che non torni anche a volare, a forza di sentire cose belle.