Quando venticinque anni fa i Garbage fecero il loro ingresso nel mondo del rock, se ne parlava (erroneamente) quasi come fossero un progetto solista mascherato di Butch Vig, celebre in quegli anni per aver collaborato alla riuscita di album rilevanti, soprattutto di area grunge (su tutti, è persino banale ricordarlo, la mente va a “Nevermind” dei Nirvana, laddove molta critica è concorde nel ritenere decisivo il suo apporto come produttore).

Non fu così ma di certo il nome di Vig attirava attenzione, visto quanto fosse in auge (produsse anche i primi due album degli Smashing Pumpkins in quegli anni, tanto per fare un altro nome); ad ogni modo la sua idea era quella di creare una band vera e propria, assieme agli amici e “colleghi” (in quanto anch’essi navigati musicisti e produttori) Steve Marker e Duke Erikson. Col primo in particolare le affinità  e i punti di contatto erano diversi, basti pensare che assieme avevano fondato più di dieci anni prima, nel 1983, gli Smart Studios, noti per aver ospitato fior di artisti.

Iniziarono presto a scrivere canzoni, stranamente lontani però da quel genere tanto in voga e che loro conoscevano e sapevano armeggiare a menadito: niente quindi dosi massicce di rock, nè tanto meno rabbia e tensione emotiva da manifestare attraverso quelle sonorità  dure e viscerali che tanto avevano fatto la fortuna delle band partite da Seattle per conquistare il mondo. Per quanto sembra che quei primi tentativi non fossero ancora ben a fuoco, per usare un eufemismo (tanto che furono definiti gentilmente spazzatura), i tre andarono avanti per la loro strada, ponendosi degli obiettivi concreti.

Le versioni sull’origine del nome scelto sono divergenti, fatto sta che per loro fu catartico chiamarsi Garbage (appunto, spazzatura), in quanto ciò che volevano realizzare era esattamente il contrario: canzoni raffinate, eleganti e magnetiche. Gli interessi infatti volgevano verso una musica di matrice alternativa, variegata, con elementi pop e new wave e, per incarnarne al meglio le istanze quella che serviva era una voce femminile. La scelta cadde sulla scozzese Shirley Manson, emergente cantante degli Angelfish, vista casualmente in un videoclip. C’è da dire che, banalmente parlando, la stessa non passasse certo inosservata.

Contattata in fretta e furia (come a dire, carpe diem), l’affascinante rossa (all’epoca non ancora ventottenne) fece armi e bagagli e raggiunse il terzetto al di là  dell’Oceano, precisamente a Madison, in Wisconsin, dove stava la base e alla seconda occasione superò brillantemente la sua audizione.

La Manson dimostrò subito di non essere una “semplice” vocalist, non era la graziosa presenza femminile che doveva interpretare i brani della neonata band e rappresentarli in pubblico. La sua personalità  era già  molto forte, finanche debordante a tratti e, per farla breve, non ci mise molto per prendersi la scena. In fondo i tre non aspettavano altro e in cuor loro speravano proprio che una cantante di sicuro impatto come lei potesse fare la differenza nell’ambito del rock alternativo a stelle e strisce. I riferimenti di Shirley erano in linea con quelli della band, in quanto aveva dichiarato amore per gruppi come Pretenders, Blondie ma anche Siouxsie and the Banshees… insomma, i modelli femminili erano accomunati da una fortissima personalità  e presenza scenica. Poi, il padre putativo poteva essere David Bowie ma in ogni caso c’erano i presupposti per iniziare a lavorare con la neo arrivata a quei brani ancora allo stato embrionale.

Ed è qui che entrò in gioco presto la figura di quest’ultima, che subito riuscì a “imporre” le proprie idee e la propria visione musicale. Non è sbagliato affermare che tra i solchi di brani entrati presto nell’immaginario di un’epoca come “Queer”, “Milk”, “Only Happy When It Rains” e “Stupid Girl” (tutti baciati da grande successo) ci siano proiettati i pensieri della protagonista, che non ha mai temuto di mettersi alla prova e di denudarsi, con testi graffianti, intensi e provocatori il giusto.

Era un periodo di grande fermento musicale quello che ci stava conducendo dritti nel nuovo millennio e l’eco del grunge si sentiva ancora forte in lontananza, così come lo sgomento e il disorientamento per la morte del suo simbolo Kurt Cobain (fra l’altro Vig, Marker ed Erikson incontrarono per la prima volta la Manson la sera stessa che giunse loro la tragica notizia del ritrovamento del corpo del leader dei Nirvana).

Tuttavia, sembrava evidente si fosse chiusa in maniera definitiva quella stagione musicale così ricca, e band come i Garbage arrivarono giusto a coprire una casella nei gusti degli amanti di un rock che davvero rappresentava un’alternativa, per la sua varietà  e la sua eterogeneità .

Furono tanti, di qua e di là  dell’Oceano (in Europa l’accoglienza di questo debut album fu clamorosa) i fans conquistati dalla band in men che non si dica, catturati certamente dall’indole sexy e conturbante della cantante ma anche e soprattutto da canzoni tutte di ottima fattura, permeate com’erano di arrangiamenti sublimi, accostamenti audaci con icone del passato ma con lo sguardo al futuro dato dalla presenza di sonorità  contemporanee, dove accanto al rock faceva capolino spesso e volentieri l’elettronica.

Il tutto creava un mix di atmosfere avvincente, con l’ascoltatore che si lasciava trasportare di volta in volta dalle note evocative della struggente ballata “Milk” (presentata tra l’altro agli Mtv Europe Awards, in un’edizione in cui vinsero il premio come miglior artista esordiente), per poi perdersi nelle impetuose liriche di “As Heaven Is Wide”, per non dire dei già  citati singoli in cui la Nostra poteva apparirci a seconda dei casi romantica, lasciva, sfuggente o dannatamente torbida.

Gli ingredienti c’erano tutti affinchè l’exploit fosse servito, e così fu, con svariati milioni di copie vendute in tutto il mondo e la promessa di continuare a deliziarci e coinvolgerci a lungo. Ma col senno di poi, possiamo dire che non andò esattamente così, e non tutto fu mantenuto. Le sicurezze in seno al gruppo iniziarono a vacillare, specie in Shirley che, non abituata certo a tanta sovraesposizione, con tutta l’attenzione dei media puntati addosso, si ritrovò persa e spaesata, sull’orlo del cedimento. Queste sensazioni saranno poi certificate in un brano famosissimo, anticipatore del secondo fatidico album, quello della conferma: “I Think I’m Paranoid” è una vera e propria dichiarazione dell’autrice, un manifesto, una fotografia di ciò che le stava accadendo. Ma questa è un’altra storia.

Come giudicare quindi l’album d’esordio dei Garbage? Riascoltando le dodici tracce che lo contengono, con orecchie ormai temprate da venticinque anni di ascolti, sembra persino un lavoro troppo ben congegnato, per quanto tutti i singoli episodi siano a loro modo “perfetti”: c’è la spruzzatina di new wave, un po’ di trip hop qui, di indie rock là , persino di incursioni nella soft dance, in brani decisamente a presa rapida, forti di incisivi ritornelli. Un calderone musicale allestito con perizia e maestria ma forse con poca naturalezza.

Mi verrebbe da dire che anche gli episodi più felici del disco fossero frutto di un lavoro a tavolino, adattissimo (e la storia ce lo confermerà ) per colonne sonore, spot pubblicitari o per fare da sottofondo a tanti contesti diversi, ma sarebbe francamente troppo ingeneroso nei confronti dei loro titolari. Allora formuliamo questo giudizio finale, in fin dei conti molto lapidario: si tratta di un album che è giusto omaggiare nel giorno del suo venticinquesimo compleanno, perchè semplicemente composto di belle canzoni che si fanno ascoltare ancora oggi che è un piacere. Scusate se è poco.

Garbage ““ Garbage
Data di pubblicazione: 15 agosto 1995
Tracce: 12
Lunghezza:  50:51
Etichetta: Almo Sounds/Mushroom Records
Produttore: Garbage

Tracklist
1. Supervixen
2. Queer
3. Only Happy When It Rains
4. As Heaven Is Wide
5. Not My Idea
6. A Stroke of Luck
7. Vow
8. Stupid Girl
9. Dog New Tricks
10. My Lover’s Box
11. Fix Me Now
12. Milk