Per i più distratti, parrà  a lor strano il tono declamatorio nel definire l’album in oggetto: uno dei capolavori pop degli ultimi trent’anni.
Saranno stati fuorviati dall’immagine patinata, in alcune fasi, al limite del kitsch, di George e dalle rimembranze di ciò che fu l’artista prima di quel fatidico 3 settembre 1990, snodo cruciale per la carriera del nostro.
Inutile ricordare che fu l’anima del duo degli Wham!, capostipite delle tanto vituperate boy band, anche se ammettiamolo le bubble songs sfornate dagli Wham rimangono nel loro genere delle ghiotte ma mai indigeste delizie.
A seguire lo scioglimento della “band”, il successo di dimensioni clamorose viene confermato con il primo album da solista, quel “Faith” guascone al punto giusto e uno dei manifesti del pop da classifica anni ’80.
A fronte di tali precedenti, ma oso ribadire, senza necessità  che qualcuno storga il naso, di assoluta ispirazione se pur nell’ambito del più compromesso mainstream, fu sorprendente la direzione artistica che assunse il frontman con “Listen wthout prejudice”.

Sin dalla scelta del titolo, dalla stessa copertina e dalla modalità  di marketing/promozione per il lancio del disco, si poteva presagire un cambio importante ma la conferma avvenne sin dal primo ascolto e fu sufficiente appoggiare la puntina sui solchi del nuovo lp per rendersi conto che di trionfo artistico si trattò.
All’epoca quindicenne, se pur già  convertitomi alla fase ribelle del rock, non rinunciai ad acquistare l’album, memore comunque del divertimento che mi aveva procurato l’ascolto degli Wham e di “Faith”, anche se non avevo molto apprezzato la scelta di esibirsi allo stadio Bentegodi di Verona utilizzando la vergognosa pratica del “playback”, antitesi del concetto stesso di “live”.
Già  allora colsi sin dal primo ascolto il cambiamento associato ad una profondità  e qualità  davvero notevole della nuova dimensione musicale di George.
Ascolti più maturi e consapevoli in questi decenni non hanno fatto altro che confermare la bellezza di questo album.

Al tempo fu accolto benissimo dalla critica, che apprezzò la svolta mentre gli 8 milioni di copie vendute confermarono George Michael come artista di fama, se pur non fu un dato di vendita ai tempi considerato ottimale (a leggerlo oggi fa sorridere).

Questo album stupì tutti, un album per molti tratti introspettivo ma senza essere cupo e rivelò al mondo le sue straordinari doti vocali al servizio di un pop raffinato associato a qualità  da crooner, memore della lezione dei grandi maestri ed intrattenitori del passato ma assolutamente moderno e non meramente derivativo.
Il merito dell’album a mio avviso è da una parte di non contenere alcun “filler” ovvero come tutti i grandi album non contiene alcun riempitivo e si fa ascoltare dall’inizio alla fine; dall’altra di essere splendidamente bilanciato nella perfetta alternanza tra ballate accompagnate dal piano o dalla chitarra acustica e brani più movimentati.
Il merito di questi ultimi è l’essere caratterizzati dalla presenza degli allora nuovi arrangiamenti tipicamente anni 90, ma quella tipologia di arrangiamenti anni ’90 che rifuggono dalla parte più “boombastica” e facilona per adagiarsi invece sul filone funk & soul del periodo (basti citare i suoni utilizzati da band come i Soul II Soul).
Tale scelta fa sì che questi brani non risultino datati anche se tradiscono (in senso positivo) l’epoca in cui furono scritti, come si evince da titoli come il pop-soul di “Something to Save”, da “Waiting for that day” (che i più attenti avranno notato che viene citata espressamente in coda la “You can’t always get what you want” da “Let it Bleed” dei Rolling Stones).
Giova citare l’instant classic “Freedom!90”, dal brillante sound che coniuga new jack swing , gospel e funk, il pop lennoniano di “Praying for Time” ed il funky pop di “Soul Free”.
Le ballate sono invece rappresentate dalla pianistica cover di “They Won’t go when i go” (Stevie Wonder), dai toni valzer della splendida e raffinata “Cowboys and Angels”, dalla struggente “Mother’s pride” e dall’introspezione di “Heal the Pain”.

Ricordando la chiusura dell’album con la malinconica “Waiting (reprise)”, ci si accorge che infine i brani sono stati da me citati per intero, per un ascolto, se pur nell’eterogeneità  dei brani, che difficilmente tradisce interruzioni.
Nel 2017 l’abum fu ristampato e venne “potenziato” regalandoci una serie di bounus tracks/outtakes , invero nulla di memorabile e a testimonianza che il meglio fu pubblicato; fu inserita anche l’esibizione di Michael per l’ “Mtv Unplugged”, che avvenne dopo la pubblicazione dell’altro suo capolavoro, “Older”, dove spicca quale gemma la riproposizione in chiave jazzy della dance oriented “Fast Love” .

Un personaggio che per molti rappresenta un po’ quello che gli intransigenti del blues definiscono autore “da salotto per ricchi bianchi“, ma per gli intellettualmente onesti l’album che oggi compie 30 anni rimane una perla che si deve ascoltare, per l’appunto, “senza pregiudizio”.

Pubblicazione: 3 settembre 1990
Durata: 48:19
Tracce: 10
Genere: Pop
Etichetta: Columbia Records-Epic Records
Produttore: George Michael

Tracklist:

Praying for Time ““ 4:41
Freedom! ’90 ““ 6:30
They Won’t Go When I Go (cover di Stevie Wonder e Yvonne Wright) ““ 5:06
Something to Save ““ 3:18
Cowboys And Angels ““ 7:15
Waiting For That Day/You Can’t Always Get What You Want ““ 4:49
Mother’s Pride ““ 3:59
Heal the Pain ““ 4:41
Soul Free ““ 5:29
Waiting (Reprise) ““ 2:25