Per la giovane Maya Hawke approcciarsi alle esperienze artistiche deve essere stato quanto di più naturale e spontaneo, abituata a trascorrere l’infanzia tra un set e l’altro, avendo i genitori entrambi attori, oltretutto all’apice del successo mentre lei muoveva i primi passi.

Figlia di Ethan Hawke e di Uma Thurman, come tanti figli d’arte ha avuto terreno spianato per accedere a provini e quant’altro ma poi dimostrare di essere, non dico all’altezza dei cognomi, ma almeno una brava attrice ce ne passa.

Ecco, Maya dall’alto dei suoi ventidue anni, molti dei quali già  spesi a trovare una sua dimensione, richiesta com’era come modella, attrice o testimonial, sembra proprio aver intrapreso il sentiero giusto, tenendosi lontana dal glamour (in questo, occorre dirlo, protetta da genitori che non l’hanno mai voluta esporre e “imporre”) e concentrandosi piuttosto a crescere come artista.

E se quello dell’attrice sembrava essere il suo sblocco naturale, comprovato dalla convincente partecipazione a “Stranger Things”, il mondo delle sette note era al contrario per lei tutto da esplorare, simile a un grosso punto interrogativo. Invece proprio imbracciando una chitarra, scrivendo i primi pezzi e attorniandosi di spiriti a lei affini, pare che abbia trovato il suo habitat, il modo migliore per esprimere se’ stessa. Lo aveva affermato tra l’altro in un’intervista che si sente molto più libera quando deve comporre una canzone, con pochi assilli e pressioni.

Finalmente è giunto il tempo di raccogliere i frutti con la pubblicazione di “Blush”, titolo scelto non a caso, in quanto riguarda proprio un suo tratto caratteriale, che la porta sovente ancora ad arrossire.

Le premesse erano buone dopo aver sentito i singoli pubblicati sin dall’anno scorso (“To Love a Boy” e “Stay Open”) e che già  avevano creato il giusto hype e una curiosa attesa in merito a un album di debutto vero e proprio. Il fatto che abbia poi deciso di accantonare quei pezzi, gradevoli pur se acerbi, è segno di come nel frattempo si sia resa conto di essere andata avanti, tanto da non inserirli nella tracklist.

Nel comporre il suo mosaico, non ha voluto ricercare il produttore di grido o azzardare featuring con la star di turno. No, Maya ha scelto la forma canzone in fondo più semplice, con le chitarre acustiche a sorreggere l’apparato musicale, con qualche inserto di piano a far capolino, nel contesto di una pulizia di fondo che riguarda tutte le tracce.

Coadiuvata da Jesse Harris ““apprezzato per i suoi lavori con Bright Eyes e Norah Jones ““ ha messo in fila dodici canzoni,   legate tra loro per lo meno a livello stilistico, senza grossi scarti tra l’una e l’altra, in cui potersi soffermare lentamente ad ascoltare le sue parole, perdendosi in sonorità  placide e al più rassicuranti.

Il tema dell’amore e della ricerca del sè sono dominanti in felici episodi come la paradigmatica “By Myself”, dalla struttura classica, o le più intime “So Long” (che mi rimanda alle atmosfere degli Shivaree, qualcuno li ricorda?) e “Coverage”, entrambe già  uscite come singoli. Pur rimanendo in ambito indie folk, la Hawke mostra timide aperture in territori country pop, come in “Cricket” e in “Menace”, quest’ultima a mio avviso la più interessante dell’intero lavoro.

Il tratto della malinconia è sempre dietro l’angolo in questi casi ed emerge infatti tra le pieghe dell’album, delineando un po’ tutto il mood, con rari passaggi di vivacità  musicale.

Per quanto coeva a molte pop star americane, la nostra sembra voler seguire piuttosto l’esempio di artiste quali Phoebe Bridgers o  Julien Baker, per non dire della nuova Taylor Swift convertita alla musica d’autore, senza tuttavia al momento possederne i guizzi in fase di scrittura o il gusto di certi arrangiamenti; manca a dirla tutta anche una potenziale hit che la faccia emergere.

Poco male, considerando che l’intento sembra piuttosto quello di reclamare, senza bisogno di battere i pugni sul tavolo, un suo posto nel mondo, mirando più a certe icone del passato che non rincorrendo le mode del momento.