Mancavano dalle scene musicali da ben sette anni i fratelli Henry e Thomas “The House of Lords” Dartnall, che con il batterista Oliver Askew compongono gli Young Knives.

Tornati in pista con “Barbarians”, c’è da ammettere che in questo lasso di tempo che li ha separati dal precedente “Sick Octave”, i Nostri hanno saputo sviluppare e approfondire una tendenza molto più aggressiva e viscerale della propria arte, fregandosene altamente dei possibili strascichi a livello di immagine e delle eventuali ricadute in termini di popolarità .

Probabilmente i due Dartnall, menti creative assai complementari dell’ensemble, hanno pensato esattamente l’opposto, e cioè che mettendo in musica il loro punto di vista su temi anche pesanti riguardo la società  attuale e passata, avrebbero ottenuto ancora più credibilità  e rispetto.

Detto ciò, e al di là  di propositi roboanti, come quello di trarre ispirazione per questo album dal filosofo John Gray (e nello specifico dal suo libro “Straw Dogs”, sorta di pietra miliare della sua produzione letteraria), gli Young Knives hanno in effetti pubblicato un album senza compromessi, duro e volutamente ostico, in cui c’è davvero pochissimo spazio per momenti rilassanti o rassicuranti e in cui la musica sfugge dalle direttive canoniche dell’indie rock per diventare fluida e contaminata, ma anche e soprattutto fredda e disumanizzata.

Se il manifesto programmatico dell’opera è la title track, con i suoi toni declamatori e minacciosi, è altrove che viene meglio tradotta questa bramosia di definire il lato più scomodo e nero della società .

L’iniziale “Swarm”, già  uscita come singolo, ti fa entrare nel giusto mood con i suoi giri ipnotici e un’efficace melodia rock che ricorda un po’ i padri putativi Joy Division: è in un certo senso un’apertura “morbida”, pur nelle sue vene dark, se paragonata a ciò che incontreremo poi lungo il cammino.

L’atmosfera infatti muta già  drasticamente con il secondo brano, che rimanda alla vicenda di Valerie Solanas, una delle più introverse figure degli anni sessanta, e al suo SCUM Manifesto in particolare, da cui riprende il titolo questa obliqua “Society for Cutting Up Men”.

Dopo due episodi nebulosi e un po’ ridondanti come “Jenny Haniver” (in cui aleggiano i Radiohead più austeri) e “Red Cherries”, si arriva a un’altra tappa “spaventosa”, e che mette in guardia l’ascoltatore sul fatto che dovremo far fronte a qualcosa di ineluttabile, col peggio che deve ancora arrivare.

Inframezzata dalla carezzevole nenia di “Holy Name ’68”, una ninna nanna cantata dalla madre dei fratelli Dartnall quando stava in Papua Nuova Guinea, giunge infatti l’apocalisse prefigurata nelle tracce precedenti e qui compiuta attraverso una seconda parte di album in cui i brani e i testi assumono forme claustrofobiche e nichiliste.

Dopo la già  citata “Barbarians” che intitola l’intero lavoro e che allude all’estinzione degli aborigeni in Tasmania, ci imbattiamo dapprima nella cupa e sinistra “Sheep Tick”, corredata da un brutale videoclip che ricorda gli esperimenti di Aphex Twin, e poi nel grido lancinante di “Only a God”, che conduce al finale esplicito e allucinato di   “What I Saw”, una specie di mantra Afro beat per nulla consolatorio.

Si arriva così alla fine del disco piuttosto stremati, consapevoli di aver ascoltato un’opera che somiglia più a un viaggio negli Inferi che a una ricostruzione di alcuni fatti deplorevoli della società  dell’ultimo secolo.

E’ indubbio che i Nostri abbiano premuto il tasto del pessimismo cosmico nell’approcciarsi a questo che a conti fatti possiamo definire un concept -album, e se l’obiettivo nei loro intenti si può dire raggiunto (con liriche e musiche ben rappresentative di tali propositi), da un punto di vista meramente artistico occorre ammettere che i risultati sono molto altalenanti e che forse occorreva uno sguardo sulla realtà  un po’ più lucido e distaccato.

Credit Photo: Ian Wallman