di Stefano Bartolotta

La leggenda di “The Dead Flowers Reject” inizia il giorno del decimo anniversario di “Six”. Quel giorno, Paul Draper, che in quegli anni non si era più praticamente fatto sentire, pubblica un lungo scritto diviso in due parti in cui racconta diversi retroscena legati al secondo disco dei suoi Mansun. Tra essi, il più succoso è rappresentato dalla rivelazione che le b-side dei singoli altro non erano che le trace che avrebbero dovuto comporre un album gemello, che però la EMI si rifiutò di pubblicare, costringendo, appunto, la band a usare quelle canzoni come lati b. Paul aveva anche creato uno streaming (quanto era avanti, a pensarci oggi?) per ascoltare le canzoni secondo l’ordine in cui erano state pensate. Per i fan accaniti dei Mansun, quindi, non c’erano novità  in termini di contenuti, ma era importante sapere l’idea che stava dietro alla realizzazione di questi brani.

Nessuno, all’epoca, ha chiesto una pubblicazione del disco, perchè sembrava un desiderio troppo difficile da realizzare, ma chi le b-side le aveva, se le è trasferite su PC in forma di mp3 e si è composto la playlist, e gli altri hanno potuto utilizzare lo streaming fornito da Paul, rimasto attivo per diversi anni. Poi, però, Paul è tornato a far musica e ha fatto in modo che la Kscope acquisisse pure i diritti delle canzoni dei Mansun, e, a quel punto, l’esistenza in formato fisico di “The Dead Flowers Reject” è stata richiesta a gran voce, anche perchè c’era già  anche l’artwork, frutto di un contest non ufficiale lanciato dallo stesso Draper nel giorno della rivelazione.

I fan, in realtà , sono stati accontentati solo in parte, perchè, al momento, il disco esiste sia su CD che in vinile, ma la prima versione è contenuta solo nel deluxe box set che celebra il ventesimo anniversario di “Six”, e quindi ha un certo costo, e anche il vinile, uscito a fine agosto per il Record Store Day, non viene certo via a buon mercato, soprattutto per i non britannici viste le spese di spedizione. Inoltre, oggigiorno ormai la musica si ascolta principalmente in digitale, ma di questo disco non c’è traccia su Spotify o sugli altri servizi di streaming e download.
Almeno formalmente, comunque, il disco è stato pubblicato in versione fisica, per cui è giunto il momento di analizzarne il contenuto. Nonostante l’intenzione della band di pubblicarlo assieme a “Six” (o, forse, proprio per questo motivo), i due album hanno più differenze che punti in comune, perchè sono sì lavori il cui suono è improntato sulle chitarre e la cui natura è priva di compromessi e, in qualche modo, sfrontata, ma mentre “Six” è ambizioso, magniloquente e ha diversi momenti di stampo innegabilmente prog, “The Dead Flowers Reject” è acido, sporco e diretto, una gettata di vetriolo pregna di insofferenza e disagio, sensazioni declinate in realtà  anche in “Six”, ma che qui sono espresse in modo più primordiale e istintivo.

In realtà , un altro punto in comune con “Six” c’è, ed è il fatto che l’ascolto di queste canzoni tutte insieme, e soprattutto nell’ordine che avrebbero dovuto avere nel disco, dà  loro un grande valore aggiunto, oltre a quello intrinseco posseduto da ognuna di loro. Questo discorso vale già  a partire dall’iniziale “What It’s Like To Be Hated”, che è perfetta in posizione d’apertura proprio per il suo inizio fuori dagli schemi nel suo essere diretto e senza introduzioni di sorta. La canzone fa subito capire il mood inquieto, acido e claustrofobico del disco, ma dal ritornello si capisce anche che qualche squarcio di luce in mezzo alle nuvole nere non mancherà . Insomma, grazie alla sua posizione nel disco, il brano acquisisce un importante valore di vero e proprio manifesto programmatico. L’inizio della successiva “GSOH” si lega benissimo con il brano precedente, poi la canzone vira verso un suono meno tenebroso, ma l’umore resta ugualmente disturbato, e la sua brevità  e linearità  sono il veicolo ideale per dare al riff della successiva “Been Here Before” il maggior impatto possibile. Questa è la canzone che resta maggiormente in testa ai primi ascolti, per la melodia nitida sia nel riff appena citato che nel resto della canzone. è il momento di maggior luce di tutto il lavoro, ma non si tratta di calda luce solare che porta tranquillità , ma di una luce fredda, che mantiene ai massimi livelli l’elettricità  nell’aria.

Lo stesso si può dire per il suono glaciale della tastiera che introduce “When The Wind Blows”, nella quale si rallenta il ritmo, quasi a voler prendere fiato dall’angoscia strisciante scatenata dal terzetto iniziale, ma la glacialità  del suono è tale anche nel resto del brano, mantenendo così intatta la coerenza stilistica. “Can’t Afford To Die” invece torna a pigiare sull’acceleratore, pur se in modo non troppo forte, e soprattutto con essa tornano in primo piano le tenebre e l’acidità , che vi restano anche in “Church Of The Drive Thru Elvis”, nonostante essa abbia un suono molto più essenziale, dimostrazione di come il disco non resti mai uguale a sè stesso brano dopo brano, ma di come invece sappia cambiare pelle sapendo, al contempo, proporre un vero e proprio percorso emozionale.

Con “I Care” inizia la seconda metà  del disco, e probabilmente non è un caso il ritorno dei contrasti già  presenti nel brano iniziale, che però in questo caso riguardano unicamente l’intensità  del suono, il quale passa dall’essere molto rarefatto all’acquisizione improvvisa di un certo impatto. Anche “Check Under The Bed” propone lo stesso tipo di passaggi sonori, ma lo fa in modo molto più armonico e in generale il brano rappresenta un’altra delle rare oasi di tranquillità . Tranquillità  che viene subito spazzata via da “But The Trains Run On Time”, nella quale, dei tre elementi dominanti finora messi in evidenza, ovvero acidità , glacialità  e tenebrosità , i primi due sono molto presenti, mentre il terzo è sullo sfondo. “King Of Beauty” ha la particolarità  di apparire dissonante all’inizio e di far sembrare che le cose si mettano a posto in corso d’opera, come una visione inizialmente sfuocata che pian piano recupera la propria nitidezza. Il suo andamento è probabilmente il più articolato tra tutti i brani presenti, ma la sostanziale asciuttezza del suono non l’avrebbe comunque resa adatta per “Six”, ma la rende perfetta per questo progetto.

Riecco invece le tastiere algide in primo piano in “I Deserve What I Get”, che si mantiene lineare quasi in funzione di preparazione alla conclusiva “Railings”, che inizia come una ballad quasi convenzionale, e comunque molto intensa, ma che, sia nel ritornello che nella coda strumentale, non può farsi mancare la componente di acidità  sonora ed emotiva. C’è anche una ghost track, ovvero una “Spasm Of Identity” che comunque non aggiunge ulteriori elementi al complesso dell’opera, e che probabilmente è stata posta in questa posizione solo per la mancanza di un vero e proprio cantato, a differenza di tutte le altre canzoni.

In definitiva, se avete un giradischi e una trentina di euro che vi avanzano, o se volete celebrare la grandezza di “Six” regalandovi il box set (lì però di euro ve ne servono una cinquantina), il consiglio è di non starci troppo a pensare, ma di effettuare l’acquisto, che siate fan dei Mansun o no. “The Dead Flowers Reject”, infatti, è un disco di grande rilevanza, sia per le canzoni che contiene, che per l’attenzione con la quale è stato assemblato il loro insieme, e dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che la vecchia scuola ha senz’altro tempi lunghi, ma sta davvero attenta a tutto e ci tiene alla qualità .

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Pubblicato da Mansun Official su  Venerdì 28 agosto 2020