Dan Barrett si è ritrovato un po’ a sorpresa ad essere uno degli artisti più peculiari ed eclettici dell’underground americano: con gli Have a Nice Life ha dato alla luce almeno uno dei capolavori del rock indipendente del nuovo millennio, il mai troppo incensato “Deathconsciousness“, un miracoloso mischione di post-punk, shoegaze, lo-fi, post-rock, gotico e industriale; e con il marchio Giles Corey ha impresso nuovo impulso allo slowcore e al folk d’avanguardia. Ma è stato attivo anche in progetti minori come i Gate (hardcore/noise) e ha pure composto un album “natalizio” in coppia con la moglie, senza mai scordare le origini emo e black metal (In Pieces e Nahvalr). Insomma, dove c’è del marcio, il Nostro c’è (o c’è stato).

Il progetto Black Wing ne è l’incarnazione elettronica / darkwave, e giunge al secondo album dopo il precedente “…Is Doomed” (2015). La struttura ricorda molto quella dei successi degli Have a Nice Life: rimbombi minacciosi di drum-machine, coltri polverose di droni, e in lontananza il tenue lamento della voce, rarefatta, celata, come avesse vergogna a farsi intendere nitidamente. I sintetizzatori rimpiazzano i turbinii di chitarra, e ne escono componimenti molto più canonici, rinunciando all’effetto sorpresa che quegli imprevedibili contrappunti covavano in seno.

Il risultato è un chiaroscuro di sensazioni, in un incedere zoppicante che non permette una corretta messa a fuoco del risultato d’insieme. La percezione è che Barrett voglia creare una sorta di “ipnagogia dark” giocando con le stratificazioni e i riverberi dei synth, mancando della dovuta perizia per toccar davvero le adeguate corde dell’inconscio (per aver idea di cosa voglio dire, ci si riascolti “1973” dei Seirom, parentesi space-ambient dell’omologo europeo Maurice De Jong, deus ex machina dei terrificanti Gnaw Their Tongues).

Ebbene, lo zenit è il trittico composto da “Always a Last Time” (una suggestione onirica dove il filtro di luce glissa appena tra le tenebre), “Always Hurt” (prossima ai ralenti intellettuali di William Basinski) e dalla più regolare “Sleep Apneac”, introdotta dall’aria di un grammofono d’epoca. In ciascuno dei tre movimenti si snocciola il medesimo salmo (“Voglio cose impossibili”), sull’alternarsi di variazioni a tema ambient.

Il nadir è invece quello costituito da “Vulnerable”, una witch-house cacofonica senza nè capo nè coda, che sta lì giusto per confondere le acque e allungare il brodo, e le stucchevoli “Is This Real Life, Jesus Christ” e “Choir of Assholes”, che cincischiano in tediose nenie sussurrate in catalessi. Sicchè, i brani più umili finiscono per essere quelli vecchio stampo, come il brivido chillwave di “Bollywood Apologetics” e “Ominous 80”, degna dei Depeche Mode più sordidi e rituali, ma stavolta anche il gran finale di “Twinkling” (13 minuti) ha un amaro sapore di dèjà  vu.

Più solido di “…Is Doomed” ma senza un solo brano degno di memoria, il progetto Black Wing, sostituendo l’analogico col digitale, mette impietosamente a nudo i difetti degli Have a Nice Life senza ritenervi granchè dei pregi. Dan Barrett ha un indiscutibile talento nel costruire paesaggi sonori depressi, e riesce sempre a ungere le ruote alle annoiate riflessioni spirituali di una generazione di giovani borghesi americani alle prese con la perdurante crisi di prospettiva della società  che li aveva illusi; ma l’età  adulta arriva anche per lui, che, al netto della “rabbia giovane”, si rivela un semplice compositore di maniera, seppur di un sotto-genere da lui inventato. Perciò, ripensando alle vette che ci ha regalato, lo perdoniamo senza troppi indugi.