Ani DiFranco torna in pista nell’anno più delicato per l’America con un disco che sarebbe dovuto uscire poco prima delle elezioni, poi rimandato a dicembre e infine a gennaio sperando in una pausa nel binomio disastro istituzionale / pandemia. L’attivismo di brani come “Do or Die” e relativo video sono invece ancora più attuali di qualche mese fa. Prodotto da Brad Cook e mixato da Tchad Blake, “Revolutionary Love” trae ispirazione dal libro di Valerie Kaur “See No Stranger”.

Undici brani in cui vicende politiche e personali si fondono in un’unica battaglia di vita e musica, che nel caso di Ani DiFranco dura ormai da trent’anni. “My inner world is fragile / and the outer world is dumb” ammette il frizzante singolo “Simultaneously” ed è un conflitto che torna spesso, in quasi ogni canzone. Cinquantasei minuti in bilico tra jazz, folk, funk, afro beat a partire dalla title track che è un omaggio dichiarato a Prince, passando per gli archi di una sperimentale “Chloroform”, fino alle confessioni a cuore aperto di “Shrinking Violet” e “Metropolis”. L’arma in più è la voce della DiFranco, sincera e versatile come non mai e con piglio da vera croonette.

Incredibile pensare che buona parte di questo ventiduesimo album sia stato registrato con l’aiuto di un gruppo di musicisti con cui Ani non aveva mai suonato prima: Brevan Hampden alle percussioni, Phil Cook alle tastiere, Matt Douglas ai fiati e al flauto, Yan Westerlund alla batteria, il Delgani String Quartet e Roosevelt Collier, affiancati da membri storici della DiFranco touring band: Terence Higgins e Todd Sickafoose. Un affiatamento invidiabile, evidente soprattutto in “Station Identification” e nella strumentale “Confluence”, nato in quattro o cinque giorni di libere jam sessions e fissato in musica una volta e per sempre.

I am 32 flavors and then some” cantava Ani DiFranco in un’altra epoca e ha mantenuto fede alla promessa. “Revolutionary Love” mette in mostra tutto l’amore per le melodie à  la Beatles e Curtis Mayfield, il calore di organi, chitarre, fiati, una vasta e variegata strumentazione anni settanta che crea un sound avvolgente, ricco di sfumature. E’ la sua rivoluzione gentile, un’insperata e inattesa dose di ottimismo che inaugura con stile l’era Biden.

Credit foto: Daymon Gardner