Napoleone è artista conosciuto, da queste parti. Protagonista di numerosi bollettini del venerdì, l’artista campano si era già  fatto notare dalle nostre orecchie grazie ad uno stile contaminato, capace di declinare nella forma della contemporaneità  il più ancestrale dei retaggi – il  dialetto.

Non ci troviamo di fronte ad un Liberato (che il dialetto lo ha incatenato nella sua più usata stereotipazione, figlia di un certo dis-gusto neomelodico), ma ad un novello Pino Daniele (ci protegga il cielo dalla puzza di blasfemia che questo epiteto esala, al di là  dell’innegabile qualità  di Napoleone) che dalla scelta linguistica trae forza espressiva, stretchando e comprimendo il luogo comune per creare nuovi spazi emotivi; insomma, restituendo al napoletano quella virulenza significante che deriva dal suono e dalla fonè,   prima che dal significato stretto.

Il trend, in questo senso virtuoso, trova conferma anche in “Povera Femmina”: Battisti occhieggia qua e là  nella texture avvolgente di un brano che parte dal basso, seguendo con naturalezza e senza la necessità  di artifici retorici e artistici estremi la sinuosa curva ascendente di una climax riuscita, che trova proprio nel ritornello in dialetto napoletano l’apice della sua catarsi.

C’è la distanza, il dolore della perdita (che “perdita” non è mai del tutto) e l’odore delle radici, in ogni nuovo brano di Napoleone: ora, però, non possiamo che aspettarci un disco.

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