Non fatevi strane idee: il titolo sarà  pure un palese riferimento a “OK Computer”, ma nel nuovo album dei Weezer non troverete davvero niente che possa in qualche modo far pensare ai Radiohead. E forse è meglio così, nonostante la buona cover di “Paranoid Android” che i nostri postarono qualche anno fa su YouTube. Se vi aspettavate grosse sorprese da parte della band di Rivers Cuomo, però, non rimarrete delusi. Perchè “OK Human” è un lavoro molto particolare, che ha poco o nulla da spartire con i suoi tredici predecessori. E, strano a dirsi, in senso più positivo che negativo.

Chi credeva che il quartetto statunitense avesse definitivamente esaurito la vena creativa dopo una sfilza di dischi assai poco ispirati potrebbe cambiare parere dopo aver ascoltato questa curiosa raccolta di brani squisitamente pop, dove a occupare le scene non sono le consuete chitarre elettriche ma il pianoforte, il mellotron, l’organo, i fiati, il glockenspiel e un’orchestra di circa quaranta elementi i cui contributi sono stati registrati nei leggendari Abbey Road Studios di Londra. Una piccola rivoluzione che Cuomo sfrutta a dovere, mettendo in mostra tutte le nozioni di composizione e armonia assorbite nel corso degli anni trascorsi a studiare musica ad Harvard.

Da un punto di vista prettamente formale, “OK Human” è un album perfetto. Dodici tracce brevi, ben strutturate e unite tra loro in quello che apparentemente è stato concepito come un unico flusso di deliziose melodie: spesso è difficile distinguere l’inizio e la fine delle singole canzoni. La produzione di Jake Sinclair è impeccabile: il suono è pulito e privo di sbavature, con un grandissimo spazio riservato alle parti orchestrali. Una decisione più che giusta oserei dire, considerando l’ottima qualità  degli arrangiamenti: ricchi e articolati, proprio come si usava fare negli anni ’60 e “’70.

A far da modelli, inutile anche dirvelo, sono quindi tutti artisti legati al passato più nobile e pregevole del pop: Harry Nilsson, George Martin, Brian Wilson e persino Jeff Lynne della Electric Light Orchestra, almeno nei momenti più barocchi (“Grapes Of Wrath”, “Bird With A Broken Wing”, l’orecchiabilissimo singolo “All My Favorite Songs”). Virtuose armonie vocali fanno da cornice alle interpretazioni di un Cuomo che nei testi torna a calarsi nei panni a lui più congeniali, ovvero quelli dell’adorabile disadattato vittima della propria timidezza e di ogni sorta di insicurezza.

Si va dalle tradizionali difficoltà  a socializzare (I love parties, but I don’t go/Then I feel bad when I stay home/’Cause I need a friend when I take a walk, dalla già  citata “All My Favorite Songs”) al senso di vuoto lasciato dalla sovraesposizione ai media digitali (Now the real world is dying/As everybody moves into the cloud, da “Screens”), fino ad arrivare all’esaltazione di quei piccoli piaceri domestici che, a volte ma non sempre, rappresentano gli unici conforti per i solitari duri e puri: la lettura (la scoppiettante “Grapes Of Wrath” è un esplicito omaggio agli audiolibri) e la musica (nella teatrale “Playing My Piano”, l’atto del suonare il pianoforte viene descritto come una gioiosa fuga dalla tremenda realtà  della pandemia).

Nei contenuti e nelle atmosfere, “OK Human” è un lavoro nel quale amarezza e leggerezza si completano a vicenda. Le fragilità  non vanno nascoste, ma messe in evidenza: un disco estremamente “umano”, proprio come suggerito dal titolo. Dopo un paio di uscite assolutamente inconsistenti per quanto riguarda l’aspetto emotivo, riaffiorano quindi tutti quei turbamenti e sentimenti forti che resero indimenticabili i primi due full length dei Weezer.

Un pizzico di power pop in più, a esser sinceri, non avrebbe fatto per niente male. Così come sarebbe stato bello sentire Rivers Cuomo mettersi alla prova con composizioni più mature e melodicamente complesse: in alcuni momenti, infatti, si ha l’impressione di star ascoltando la colonna sonora di un film della Disney. La band punta molto ““ forse troppo – sul peso che ha l’orchestra nell’architettura dei brani e questo non sempre dà  i risultati sperati: a volte va benissimo (“Numbers” è semplicemente splendida); altre volte ancora, invece, si scade nello smielato (“Dead Roses”). L’album comunque è solido, coraggioso e degno di attenzione: il migliore dei Weezer dai tempi del sottovalutatissimo “White Album”.

Credit foto: Shawn Murphy