A sette anni di distanza dalla precedente fatica discografica, riemergono dalle paludi più luride della Louisiana gli Eyehategod. “A History Of Nomadic Behavior” segna il ritorno sulle scene di una band fondamentale per l’evoluzione dello sludge, un sottogenere del metal caratterizzato da suoni sporchi e fangosi e da una lentezza a dir poco pachidermica.

è il trionfo della pesantezza: le corde arrugginite e incrostate di sporcizia del chitarrista Jimmy Bower producono riff tortuosi e dall’inequivocabile gusto sabbathiano, in contrasto con certe influenze hardcore punk che emergono in maniera particolarmente chiara dallo stile di voce del marcissimo Mike IX Williams. Le sue urla stridule e deliranti aggiungono un pizzico di follia in più a queste dodici tracce nuove di zecca, tutte condizionate ““ almeno nei testi ““ dai tempi assurdi, tragici e stranianti che con enorme difficoltà  stiamo attraversando a livello globale dalla bellezza di dodici mesi.

Il quartetto statunitense ha registrato “A History Of Nomadic Behavior” nel pieno della fase più intensa della pandemia, con il mondo stravolto dalle immagini degli ospedali al collasso e dalle sconclusionate teorie antiscientifiche di Donald Trump. Da qui la nascita di un album dalle atmosfere estremamente tese, imbevuto di quelle nevrosi e di quelle angosce che ci accompagnano ormai come amiche fedeli dall’inizio dell’emergenza sanitaria.

Un’opera morbosa per un’epoca malata: gli orrori del 2020 si insinuano tra le note infette di “The Outer Banks”, “Three Black Eyes”, “Current Situation” e “Every Thing, Every Day”, dove il putridume sonoro regna sovrano. Tuttavia, in mezzo al caos sludge/hardcore, è possibile individuare qualche vago sentore di blues e southern rock.

La scelta di produrre un disco dal sound leggermente più definito e “levigato” rispetto al passato, infatti, permette di cogliere una serie di sfumature che altrimenti avrebbero rischiato di passare perlopiù inascoltate, sepolte sotto un oceano di suoni saturi. Una decisione positiva per gli unici due brani in grado di beneficiarne, ovvero “The Trial Of Johnny Cancer”, che quasi stupisce per la sua vivacità , e la brevissima “Smoker’s Piece”, sorprendentemente jazzata con la sua linea di walking bass e i suoi ritmi “swinganti”.

Per quanto riguarda il resto, purtroppo, c’è da notare l’assenza di quella sana maleducazione che era alla base di un capolavoro come “Dopesick”, dove le chitarre erano davvero affilate come rasoi. Manca un po’ di botta, ma i risultati non sono assolutamente da scartare.