Sei silhouette che si stagliano nere all’orizzonte, dietro cui si nascondono musicisti che vengono da mondi diversi uniti dalla passione comune per il mondo del jazz, Miles Davis e il suo doppio “Bitches Brew”. Non poteva esserci foto migliore per celebrare il ritorno dei Bell Orchestre, collettivo già  autore di due pregevoli album candidati ai Juno Awards (“Recording A Tape The Colour Of The Light” e “As Seen Through Windows”) e di una collaborazione col coreografo Edouard Lock.

Pietro Amato (The Luyas, Arcade Fire) Michael Feuerstack (Wooden Stars) Kaveh Nabatian, Sarah Neufeld e Richard Reed Parry (Arcade Fire) Stefan Schneider (The Luyas) complice la pandemia hanno dovuto fare di necessità  virtù, invadendo letteralmente casa della Neufeld trasformata in un gigantesco studio di registrazione.

I quarantatre minuti di “House Music” sono largamente improvvisati ma poggiano su solide basi, pensati come una composizione unica divisa in quelli che a buon diritto sembrano dieci movimenti, più che brani veri e propri, già  suonati dal vivo in Olanda e in Germania. Musica fluida, casalinga e da camera che riflette con eleganza sulle mille costrizioni dell’ennesimo lockdown, sulle infinite cose che tornano a mancare, sulla natura troppo spesso vista attraverso una finestra che comunque riesce a sorprendere in “Colour Fields” e “Nature That’s It That’s All”.

Avanguardia è forse un termine esagerato ma c’è molta libertà  e sperimentazione nella musica dei Bell Orchestre, in un terzo album che vibra e sussurra con l’alchimia creata da fiati e archi, tastiere, basso, batteria e il giusto seppur inaspettato tasso di elettronica mitigato dall’esotismo di gongoma e kalimba. Note cinematografiche per nulla marginali e decisamente contagiose.

Credit foto: Nick Bostick