Architettato con gli stessi amici utilizzati nel freschissimo “Witch Egg” (Greg Coates, Tom Dolas, Brad Caulkins), Dwyer espande ulteriormente il suo orizzonte musicale, proponendoci d’embleè un esperimento di sintesi paranoica, come si deduce dalle note in rete, partendo da un vagabondare fortuito in ascolto di suoni di batteria casualmente orecchiati del vicino di casa Ted Byrnes ed introducendo progressivamente basso sax chitarre, oltre al suo contributo in più strumenti, in una composizione unica ed organica, un mix-up a distanza, emblema di processo del periodo che stiamo attraversando.

Ne escono 25 minuti abbastanza dilanianti, senza forma canzone, deliri free, urticanti e deliranti, in un continuum dove immaginiamo la percentuale stupefacente in dote ai singoli artisti fosse decisamente superiore alla norma; difficilmente riconducibile a qualcosa di narrativo, a qualche cosa in generale per lo meno, a volte si sentono riecheggiare i Gong in qualche assolo di chitarra, altre volte vi è un sax tagliente alla Zorn versione jazz-core e questo è il rimando più plausibile, ma è come se tutto venisse deliberatamente macellato da questa valanga assordante di percussioni, da questo rotolare di battiti, cucchiai, timpani chissà  quale altro strumento: l’idea è che ci sia questo tappeto ritmico infinito, uno schizzato programma di distruzione ritmica, un irrimediabile frastuono che accompagna suoni sgraziati al limite dell’ascoltabile.

Dwyer scende a patti a suo modo con la materia pulsante, un’ostentazione delle spinte animalesche che in questo torpore esistenziale da Covid 19 escono come schegge impazzite, riempiono momenti dove la noia si fa feroce, si droga di rumori primordiali che partono senza meta e finiscono come iniziano: tutto vero ed encomiabile per il solito coraggio e sfrontatezza della proposta, vero punk anarcoide, vero leader del DIY. Bravo, ma quel che è certo è che raramente è stato così faticoso arrivare alla fine di un album e di sicuro non se ne ha voglia di risentire “Endless garbage”,   il che è anche peggio, non saprei che cosa si debba esigere quanto meno da un prodotto musicale, ma siamo al limite (tranne forse la finale “No Goodbyes”) del sopportabile, perchè in questo disco c’è proprio la volontà  in nuce del fastidioso, del troviamoci e poi vediamo che ne esce, con ben altro esito rispetto al citato “Witch Egg”, ma lì erano jam di insieme con dei canovacci molto aperti ma lineari, sempre altamente in acido, ma fruibili, mentre qui siamo a dei deliri, buoni per una notte agitata, buoni per scoprire un nostro lato oscuro, per provare ad immergersi nei nostri abissi e non venirne più a capo   fino al successivo risveglio, astenersi la doppia razione.