Il nuovo progetto del produttore canadese è un gioioso tentativo di uscita dalle angosce quotidiane della tensione pandemica, un momento di riconciliazione universale che dura per l’intero scorrere delle canzoni di questo “Heavy Sun”, un collage variopinto di colori e sensazioni estraniante all’ascolto, che ci proietta in territori dolci, in una piacevole comfort zone dove lasciarsi andare ed abbandonare la triste contingenza.

Lanois riesce in questo tentativo immergendosi a piene mani col suo enorme background nella musica nera situata in un luogo ideale posto fra New Orleans e Harlem, fondendo la tradizione gospel con quella latino-caraibica già  in passato seguita e prodotta ai tempi della mitica collaborazione con i Neville Brothers di “Yellow Moon”.

Una fusione calda si direbbe, caldissima affidata alle mani, voci   strumenti della Heavy sun band, il chitarrista Rocco del Luca, il bassista Jim Wilson ed il cantante e organista Johnny Shepherd, eccezionale vocalist, vera anima pulsante dell’intero album, una rivelazione portata allo scoperto da Lanois direttamente dalla Louisiana: ascoltare per credere pezzi come “Please don’t try,” “Tumbling Stone”, “Mother’s eyes”, solo voce ed organo, spiazzanti nella loro fedeltà , sinceri fino al midollo, gospel per una nuova redenzione nel 2021.

Ma sono i pezzi più compositi che sbaragliano il campo, dove si riconosce la formidabile maestria di Daniel Lanois nella gestione degli arrangiamenti, nella creazione di un suono che dosa in modo equilibrato drummng e percussioni soffici, piano latino, organo gospel, creando una musica d’atmosfera indissolubilmente legata alla figura del produttore, una musica epidermica, si ascolti la title track, con un incipit che potrebbe essere cantato dalla Grace Jones di “Slave to the rhythm” o “Tree of tule” , quasi caraibica, una specie d’incontro fra ballad soul e son cubano, splendida nella sua lenta seduzione itinerante.

Il disco che non ti aspetti, senza proclami senza hype, con una grazia del Lanois dei tempi migliori, lo si sente anche dai dettagli, da come entrano i cori, da come lascia andare le code strumentali, al solito da una certa beata artigianalità  nella costruzione di una canzone, da un senso e un mood dell’album da subito invasivo e senza cali di tensione; un disco fatto anche di parole semplici e slogan quasi “flower power” apparentemente ingenui (people get the “Power”), che però rimangono coerenti con lo spirito dell’operazione “Heavy Sun”, dare un messaggio di fratellanza e comunione ad un’umanità  stremata, fare leva su sensazioni basiche ma forse sottovalutate, che la genuinità  di queste canzoni riesce in modo efficace ed armonioso a far emergere.

Credit Foto: Marthe Vannebo