Alcuni dischi più di altri, ca va sans dire, portano con sè un’importanza definitiva nella storia della musica, che vanno oltre e prescindono da qualsiasi genere o etichetta. Sono album unici, irripetibili e senza tempo, album che si legano indissolubilmente a ricordi o esperienze personali diventando, di fatto, il cordone ombelicale della vita vissuta di ognuno di noi.

Uno di questi è l’album omonimo dei Temple Of The Dog, un disco eterno che ha fatto da trait d’union tra eventi chiave ed indimenticabili dell’illustre movimento grunge della scena di Seattle. La data di partenza è quella del 19 marzo 1990 in cui Andrew Wood, cantante dei precursori del grunge Mother Love Bone, trova a soli ventiquattro anni la morte per overdose dopo tre giorni in terapia intensiva all’Harborview Hospital della città  sullo Stretto di Puget.

Poco più di un anno dopo, il 16 aprile del 1991, vedeva la luce questo autentico capolavoro oggetto dell’odierna celebrazione. I Temple of the Dog (nome che deriva da un verso di Wood presente in “Man of Golden Words” dei Mother Love Bone, dall’album “Apple”) si formarono per mano del compianto ed indimenticabile Chris Cornell, amico e compagno di stanza di Andrew Wood, al quale dopo la morte gli dedicò i primi due iconici brani del disco, la straziante “Say Hello 2 Heaven” (“Dì ciao al paradiso, paradiso, paradiso, sì/Io, non ho mai voluto/Per scrivere queste parole per te/”…/Di tutte le cose che non faremo mai”) con gli inconfondibili riff grunge e la tagliente voce di Chris che conducono, poi, ai successivi undici minuti dell’altro brano, “Reach Down”, uno dei migliori dell’album, dove il climax grunge dalle chitarre distorte si tinge con una sorta di blues mentre Chris s’immagina un dialogo con l’amico Andrew. Un’esperienza sonora definitiva.

Inizialmente dovevano essere registrati soltanto questi brani e il buon Chris chiamò per tale scopo due ex componenti dei Mother Love Bone, Stone Gossard alla chitarra e Jeff Ament al basso. Dalle prove nacquero nuovi pezzi diventando così un album tributo. La superband fu poi completata dal batterista dei Soundgarden, Matt Cameron e da Mike McCready all’altra chitarra ai quali si aggiunse Eddie Vedder che dopo qualche mese (il 27 agosto), pubblicò un altro capolavoro, la milestone “Ten”, album d’esordio dei Pearl Jam, formato successivamente proprio da Gossard, Ament, McCready e, quindi, anche da Cameron. Giusto per completezza, quasi un mese dopo (24 settembre 1991) usciva pure un “certo” “Nevermind” dei Nirvana.

Ed ecco che dall’incontro di due indescrivibili voci, quella di Vedder e Cornell, che si staglia “Hunger Strike”, una ballata a sfondo sociale (che punta il dito verso i ricchi egoisti) che segna uno dei momenti musicalmente più toccanti dell’intero album. Straordinaria.

Anche “il lato oscuro” del grunge formato dagli Alice in Chains dedicarono a Wood, amico di Jerry Cantrell, il loro primo album “Facelift”, uscito nell’agosto del 1990, nonchè l’energica “Would?” (“Di nuovo nel diluvio/Lo stesso vecchio viaggio di allora/Quindi ho fatto un grosso errore”), closing track di un altro disco enorme come “Dirt” del 1992.

Orbene, è alquanto evidente l’importanza ed il fulcro che rappresenta questo disco stand-alone dei Temple Of The Dog, un gigantesco spaccato della scena di Seattle che si stava evolvendo ad un ritmo incredibile ancorchè destinato negli anni successivi, purtroppo, a perdere i suoi fenomenali e tormentati rappresentati, ad iniziare da Wood.

Nonostante ciò, l’album dei Temple Of The Dog si innestava nel panorama come uno spin-off dello scenario grunge che sopravvive, tuttavia, oltre che nella già  citata “Reach down” anche nei power chord di una potentissima “Your Savior”, mentre il resto dell’album è votato ad un sound, diciamo, parente dell’hard rock di matrice classica come nel concitato ed incalzante ritmo di “Pushin Forward Back” e di “Four Walled World”, tre brani dove la voce di Cornell raggiunge picchi di intensità  emozionale altissimi accompagnati dai cori di Eddie Vedder. L’album è adornato pure da influenze che sfociano nel sound-tribale di “Wooden Jesus”, la mia preferita, in cui Chris dopo l’assolo di chitarra sprigiona le sue incontenibili e gigantesche corde vocali mentre i testi raccontano una presa di coscienza “Posso essere salvato?/Ho speso tutti i miei soldi per una futura tomba”.

Il tormento, questa volta per amore, si dipana nelle lente e delicate note iniziali di “Call Me a Dog” che inaugurano le ballad del disco tra la sempre ammaliante voce di Chris e che, insieme alla successiva ed altrettanto emozionante “Times of Trouble”, sono accompagnate dall’ottimo pianoforte del produttore Rick Parashar, mentre l’album chiude il sipario su “All Night Thing”, altra ballad che sullo sfondo dell’organo sempre di Parashar e la consueta voce di Chris portano all’epilogo di questo mastodontico capolavoro, che proprio nella sua unicità  ed immensità  nonchè nel momento storico in cui fu realizzato rappresenta una fondamentale e irrinunciabile pietra miliare.

Data di pubblicazione:  16 aprile 1991
Tracce: 10
Lunghezza: 54:59
Etichetta:  A&M Records
Produttori:  Rick Parashar, Temple of the Dog

Tracklist:
1. Say Hello 2 Heaven
2. Reach Down
3. Hunger Strike
4. Pushin’ Forward Back
5. Call Me a Dog
6. Times of Trouble
7. Wooden Jesus
8. Your Saviour
9. Four Walled World
10. All Night Thing