Mi ero chiesto giusto recentemente che fino aveva fatto Mike Patton, se c’è uno cui il music biz ha bisogno, uno che sparigli le carte, che dia uno spunto sempre vitale, questo è lui, ma soprattutto che fine aveva fatto la Ipecac, la sua label foriera da sempre di cose interessanti fuori dall’ordinario, sempre attrattive per originalità  e spunti, forse anche non ero stato così attento o forse proprio mancava il catalogo, quando all’improvviso arriva questo quarto disco Tomahawk, il progetto collaterale della superband di Patton assieme ai navigati Duane Denison ex chitarrista dei Jesus Lizard, qui col bassista dei Mr Bungle Trevor Dunn ed il batterista John Stainer.

Questa inconsueta pausa dalle pubblicazioni a dire il vero non ha per niente scalfito l’aurea da grande agitatore che il sig. Patton negli anni si è costruito, difficile trovare un personaggio che abbia avuto a che fare così lucidamente con tutto lo spettro dell’ambiente “alternative” con proposte originali, incrociando i generi, ponendosi in prima persona come enterteiner e con capacità  organizzative innovative, essendo inoltre potente talent scout per l’emergere di realtà  altrimenti difficilmente ascoltabili, insomma una vero agitatore musicale, in grado di passare dalle raffinatezze orchestrali dei Fantomas ai deliri con John Zorn, non disdegnando reunion spot con i Faith No More.

E tutto quello che abbiamo imparato ad apprezzare del Patton che fu, perchè per tutti passano gli anni, anche per chi iconograficamente sembrava inappellabile al richiamo del tempo, si ritrova con piacere in questo “Tonic Immobility” per il progetto Tomahawk , quello forse più vicino ad un mainstream sonoro abbordabile.   Gli otto anni passati dal precedente “Oddfellows” svaniscono all’impatto delle prime note di “SHHH!”, la prima canzone dell’album, perchè “Tonic Immobility” ha il pregiato merito di catapultarci direttamente nel noto immaginario anni 90 composto dalle sonorità  frutto di un mix che vanno dal post punk dei Lizards, gli stessi Helmet, molto dei FNM periodo finale, una specie di summa del background dei singoli componenti del gruppo.

In verità , il disco carbura lento, prende vigore quasi da metà , a partire da “Predators and scavengers” che assieme  “Recoil”, “Howlie” e “Sidewinder”, rappresentano i brani più   azzeccati dell’album, i primi due belli compatti e tesi, con il cantato gridato quasi in scream dei bei tempi di Patton, mirabile qui come in altre parti a raggiungere ancora vette decisamente improbe per qualsiasi altro della sua generazione, con sezione ritmica bella martellante, la solita splendida chitarra ammazzatempo di Denison qui abrasiva e puntuale come al solito, mentre la seconda coppia citata rientra nell’alveo della contaminazione pop in salsa chioaroscuro tipica delle migliori cose dei FNM, intro pianoforte dreamy in minore, voce da crooner, per poi far scattare la furia dell’artiglieria.

Per i fan della prima ora ma anche per le nuove generazioni che non hanno una chiara idea di cosa voglia dire crossover, o almeno quel tipo di connotazione che inizialmente veniva data al termine crossover, qui dentro i motivi di un adeguato entusiasmo ci sono tutti, difficile trovare oggi altri soggetti che riescano a fare brani così rimanendo fedeli a se stessi ma anche così determinati e per certi versi freschi; però, contestualizzando il tutto, perchè questo è un dovere ahimè ingrato per una recensione, avremmo voluto e preteso qualcosa di più da Patton e soci, il resto delle canzoni, pur mantenendosi su un buon livello, a volte si confonde e non lascia traccia, forse ce ne stavano una manciata di meno, sembra, non dico che si senta il pilota automatico, ma che ci sia una limitazione all’esecuzione del compitino che lascia l’amaro in bocca.

Insomma, abbiamo Patton e Denison e se solo mi affidassi ai ricordi di quanto devastanti erano le loro performance dal vivo, non solamente dal punto di vista della qualità  musicale ma della sfrontatezza ed irriverenza della proposta e mi confronto con gli esiti di questo pur buono “Tonic Immobility”, ecco questi otto anni di assenza dalle scene suggeriscono dei rimpianti, le sue canzoni portano sovente a pensare quanto bello era quel periodo e che cazzo di figata era quella musica, il che va anche bene in generale, ma non può essere una parte per il tutto, non basta per far alzare dalla sedia, soprattutto non basta per farci scattare la molla ad affezionarci, non si aprono nuovi percorsi, c’è poco di nuovo nascosto fra le righe, e sarebbe doveroso pretenderlo da questi tizi qui.

Credit Foto: Eric Livingston