Il mese scorso Gianluca Grignani ha annunciato la ristampa in vinile, prevista per il 21 maggio, del suo secondo album “La fabbrica di plastica”, divenuto nel tempo di culto (anche) presso il pubblico del rock.

Si tratta di un doveroso tributo a un disco pubblicato esattamente 25 anni fa tra lo stupore degli addetti ai lavori e lo sgomento dei tanti fans che ne avevano apprezzato la vena melodica emersa con prepotenza nel suo album d’esordio, il best seller “Destinazione Paradiso”, capace di imporlo all’attenzione generale.

Una veste, quella del teen idol, che però stava strettissima a Grignani, il quale decise di rimettere in discussione tutto (dall’immagine alle sonorità , fino all’attitudine), al momento di replicare un simile exploit, tradotto in due milioni di copie in tutto il mondo e il suo nome esportato con successo presso il pubblico sudamericano.

Via i capelli lunghi che gli davano una parvenza angelica, sotterrate le melodie cristalline sotto muri di chitarre tanto sature quanto granitiche, liberato lo spirito ribelle che sembrava essere in precedenza domato, ecco che la nuova versione del “Grigna” sembrava cozzare con quella che avevamo imparato a conoscere, come se in lui convivessero due anime distinte. Sarà  col successivo album che lo stesso cantautore si attribuirà  l’appellativo di Joker, intitolando altresì allo stesso modo un brano, e anche la sua vicenda personale, non solo quella artistica, finiranno per confermare questa sua insita dualità .

Ne “La fabbrica di plastica” Gianluca volle invece scardinare ipocrisie e falsità , mettendo a nudo – in maniera se vogliamo un po’ ingenua e forse troppo istintiva (beata gioventù!) – una sua visione del mondo, che dalla sfera privata sfociava in quella musicale e viceversa.

E qui sorge il paradosso che accompagnerà  da allora per sempre il Nostro: quale versione dobbiamo tenere per buona? Qual è (o qual era) il Grignani più autentico e vero?

Il primo, fautore di una musica pop aggraziata e ben confezionata, che tornerà  via via meno ispirato dopo gli esperimenti rock (iniziati con “La fabbrica di plastica” e conclusi con il successivo, altrettanto interessante, “Campi di popcorn”), o il secondo, che a un certo punto decise di rivoluzionare ogni cosa, guardando ai Radiohead, ai Beatles e a Nick Drake, rifiutando Sanremo e il playback?

Nell’inevitabile clamore suscitato dalla sua vicenda artistica (da sempre i wannabe portano con sè una buona dose di fascino e mistero), sono quasi allineati coloro che hanno inteso la svolta rock come artefatta o furbetta, e quelli che invece ritengono quel suo cambiamento urgente e assolutamente sincero e necessario.

Io, lo ammetto, propendo più per la seconda ipotesi; non potendo permettermi di dire di conoscere personalmente il protagonista, ma affidandomi alle mie impressioni, penso che il suo tentativo di lasciarsi alle spalle un momento roseo sul piano della popolarità  e dell’attenzione mediatica, per cercare una propria via più personale, sia partito dal cuore, grondante passione e motivazione profonda.

Elucubrazioni a parte, veniamo al nocciolo del topic: fu un grande abbaglio o al contrario un grande disco?

In un’epoca in cui il rock mainstream italiano era riconducibile nei numeri da stadio di Vasco (che tra l’altro designò il Grigna come suo possibile erede) e Ligabue, e nell’avvicinamento al pop da parte dei Litfiba, “La fabbrica di plastica” sembrava un prodotto alieno, perchè lontano stilisticamente e culturalmente sia dai grossi nomi sopracitati che dall’ondata di talenti nostrani che stavano emergendo dal mondo underground (e che da lì a un anno o poco più avrebbe finalmente sdoganato presso un grande pubblico gente come gli Afterhours, i Marlene Kuntz, i Subsonica e tanti altri).

Insomma, la proposta di Gianluca era una sorta di ibrido, seppur molto interessante, ma che rischiava (come infatti successe all’epoca) di essere poco compresa, rinnegata (o non particolarmente amata) dai suoi giovani fan della prim’ora, così come dagli ascoltatori più intransigenti del rock che non lo ritenevano credibile in quei nuovi panni alternativi.

Sta di fatto che ci fu anche qualche mosca bianca tra la critica specializzata che in presa diretta capì il valore dell’opera e ne apprezzò le istanze, e occorre ammettere che ci vide lungo, poichè a distanza di qualche anno l’opinione sul disco cambiò drasticamente: partendo da outsider finì per campeggiare nelle liste dei migliori album del decennio nineties, in taluni casi scavalcando nei consensi titoli all’epoca ben più incensati e celebrati.

Col nuovo millennio,poi, quando si assistette alla restaurazione di un’esperienza artistica ormai adagiatasi su un pop rock decisamente più fruibile (seppur episodicamente ancora in grado di colpire in maniera positiva, ascoltando scevri da pregiudizi), erano sempre più numerosi i fans che rimpiangevano i tempi del Grignani rock e ribelle, quello ancora in grado magnificamente di tradurre in canzoni i propri turbolenti stati d’animo, incanalando pulsioni e tormenti interiori in pregevoli parole e note.

Tutto ciò si era verificato in maniera perfetta tra i solchi di questo disco, incastonando i versi disarmanti e programmatici della title track (il cui indimenticabile incipit acustico e le successive scariche elettriche che la caratterizzano sono tra i momenti più esaltanti di un’intera carriera): “Ho provato ad essere/come tu mi vuoi/tanto che sai in fondo cambierei/ma son fatto troppo/troppo a modo mio/prova ad esser tu quel che non sei..”.

Versi ispirati e sentiti che arrivavano dritti come un pugno in faccia e che mostravano da una parte un’evidente senso di inadeguatezza ma dall’altra anche la piena consapevolezza di un ragazzo di soli 24 anni che reclamava un suo posto nel mondo, senza perdere l’autenticità .

La tensione e una certa ebrezza adrenalinica rimangono alte, sia a livello musicale che narrativo, con Grignani che nella traccia successiva, parafrasando il suo idolo dichiarato John Lennon, grida nel ritornello che la sua lei lo fa sentire “+ famoso di Gesù”, mentre proseguendo nella scaletta il tema della spiritualità  stavolta non è solo evocato in modo profano ma acquisisce spessore tra le parole di “Solo cielo”, che musicalmente smorza i toni ruggenti, dispiegandosi su una ritmica plumbea e rilassata insieme, con le sue venature psichedeliche.

E’ ancora forte il senso di smarrimento nelle parole che aprono la canzone: “Dio non vive qui con me/ma dovevo immaginarmelo/è probabile che sia un bisogno della mente mia”.

Le trame psichedeliche e avvolgenti tornano a piene proflusioni in “Testa sulla luna”, tra wah wah e distorsioni che coinvolgono, distraendo l’ascoltatore da quello che risulta essere forse il testo meno interessante del lotto.

Piace di più, nella sua candida profondità , la successiva “Fanny”, composta in età  adolescenziale ma sorretta da una musica che non nasconde la passione del Nostro per Lucio Battisti.

Si arriva così al secondo pezzo forte del disco, vale a dire “L’allucinazione”, un brano d’amore che con un arrangiamento più morbido, prevalentemente acustico, avrebbe potuto fare un figurone anche in “Destinazione Paradiso”, ma che qui spicca proprio per i suoni abrasivi, quasi grunge, a contornare un testo interessante, che non cerca scappatoie per arrivare al punto: “E poi ci penso su/Perchè mi sento giù/Forse perchè non lavoro quasi mai/O solamente, sì/Dev’essere così/è che mi manco/Ogni giorno un po’ di più”.

Il lato B della cassettina si apriva proprio con questo singolo, di cui non uscì nemmeno un video musicale, una scelta in linea con i propositi “bellicosi” ma che finì per penalizzarne la diffusione, in un’epoca in cui i passaggi su Mtv in alta rotazione contribuivano eccome alle sorti di un’opera.

I rimanenti pezzi godono di un credito insospettabile tra i fans, a ragione verrebbe da aggiungere, in quanto si tratta di ulteriori tappe che amplificano i concetti sin lì espressi e che sembrano veleggiare libere da condizionamenti e input commerciali, così maldigesti all’autore.

In particolare colpisce il suono possente di “La vetrina del negozio di giocattoli” – in cui l’alchimia in sede di produzione tra Grignani e il noto sound engineer Greg Walsh tocca autentiche vette creative  – e quello più dilatato della sognante e stralunata “Galassia di melassa”.

Paiono antitetiche, per atmosfere e mood, le due canzoni successive: la frizzante e vagamente minacciosa “Rok Star” e la più placida e viscerale “Il mio peggior nemico”, intessuta in un clima acustico e carezzevole ma che in realtà  cela una specie di premonizione sulla sua vicenda professionale (e soprattutto umana). E’ lo stesso cantautore infatti che con candore e sano fatalismo ci confessa: “è una vita che provo a cambiare/ sbaglio e faccio finta di imparare….è questo il mio momento e me lo dico/Io sono di me stesso/Il nemico”.

C’è tempo ancora per una curiosa e gradita chicca: la ghost track “Qualcosa nell’atmosfera”, tellurica e potente, qualcosa di più che un’esercizio di stile, tanto da diventare, tra i brani nascosti appunto, uno dei più amati del suo repertorio.

A conti fatti, sì, ci pare giusto omaggiare questo disco che, seppur a tratti acerbo e ondivago, è comunque un manifesto importante di un decennio musicale che anche dalle nostre parti si stava aprendo al rock, cercando talvolta pure di emulare ciò che ci giungeva alle orecchie dai corrispettivi americani e inglesi (lo ammise Gianluca stesso tirando in ballo “The Bends” dei coevi Radiohead come fonte d’ispirazione primaria).

La forza de “La fabbrica di plastica” sta proprio in questo, nell’essere riuscito a catturare quell’energia e quella poetica, mettendoci da parte sua intraprendenza e coraggio, perchè diciamocelo a posteriori: ce ne voleva da parte di Grignani per abbandonare una strada spianata dal successo appena ottenuto, inseguendone un’altra completamente inesplorata. Era un salto nel buio con tanto di insidie e incertezze per il suo futuro.

Alla fine andò esattamente così, e quel rischio si tramutò in un flop di vendite se paragonato al boom del disco precedente, ma in fondo sulla lunga distanza si può dire che Gianluca abbia vinto la sua sfida, poichè anche se si è trattato di una fugace apertura al rock alternativo, di certo è rimasta nel cuore di molti, segnando un’epoca in modo indelebile.

Data di pubblicazione:  20 maggio 1996
Tracce: 10
Lunghezza: 45:35
Etichetta: Polygram/Universal
Produttore: Gianluca Grignani, Greg Walsh

Tracklist
1. La fabbrica di plastica
2. + famoso di Gesù
3. Solo cielo
4. Testa sulla luna
5. Fanny
6. L’allucinazione
7. La vetrina del negozio di giocattoli
8. Galassia di melassa
9. Rok Star
10. Il mio peggior nemico