Erroneamente, troppe volte, il calcio è bistrattato e ridotto a semplice spettacolo infarcito di danaro e interessi e forse, oggi, è anche vero, ma riducendo tutto al semplice gioco su un campo d’erba e un pallone di cuoio con la folla urlante, allora tutto torna ad assumere un contorno più romantico e pionieristico. Troppe cose sono cambiate: regole strambe, numeri personalizzati sulle maglie con insulsi 99 o 32 al posto della numerazione dall’uno al dieci, poca poesia in campo e troppe chiacchiere social, sceicchi, cinesi e petrolieri con mega sponsor alle spalle a far divetare questo sport solo un circo. Eppure se ripensiamo al passato l’amore per questo sport non può finire.

Oggi è il 22 maggio ed esattamente 75 anni fa, a Belfast, nasceva George Best, uno per il quale calcio e arte non sono un binomio così assurdo. George Best è, per chi ama entrambe le cose, puressenza di genio calcistico che non è più il semplice gesto atletico ma qualcosa che scatena una sorta di cortocircuito tra l’atleta e la folla, un filo invisibile che porta all’esaltazone collettiva per quel dribbling di troppo, quell’azione impensabile di cui solo Best e altri pochi eletti del football sono stati capaci. Un gesto che non è mai calcolato, ma risultato di furore e spontaneità , incoscienza e voglia di osare l’inosabile. Una vita, la sua, fatta di eccessi, cadute e riprese e durata professionalmente meno di dieci anni, tempo nel quale Georgie è passato da golden boy del Manchester United, pallone d’oro e campione d’Inghilterra e d’Europa in pochi anni per poi finire, in pratica, a 28 anni ormai disinteressato al calcio e già  dipendente dalla bottiglia, sua vera, unica e fedele compagna.

Fu il quinto Beatle, uno dei primi a portare i capelli lunghi e ostentare pose da rockstar (in Italia era Gigi Meroni ad essere chiamato il Best italiano), il primo a far diventare il calcio attività  redditizia con pubblicità  e sponsorizzazioni di ogni tipo. Fu il primo a fare del calcio, ancora troppo serioso e tradizionale, uno spettacolo puro e disimpegnato svecchiandolo da ipocrisie e falsità . E quando vedi le gesta di Georgie, bello come un attore, con la fiammeggiante maglia rossa del Manchester, i capelli lunghi, la barba sfatta, i basettoni e il mitico numero sette (perchè Best è il numero sette come Diego è il dieci) sai che solo “In My Life” dei Beatles può essere la colonna sonora ideale per una vita finita nel 2005 in un letto d’ospedale; devastato dall’itterizia e dalla cirrosi, un dio caduto che stava per diventare immortale. “In My Life” come melodia mentre baciava le sue mille donne e guidava incauto dozzine di auto sportive.

Quando lo vedi dribblare anche l’aria o segnare rubando la palla dalle mani di Gordon Banks, portiere dela nazionale inglese in un’amichevole Irlanda del Nord-Inghilterra o invitare beffardo gli avversari a venirgli incontro e “farsi dribblare” solo “I’m the Walrus” può essere usata come sottofondo.

Quando lo vedi fare sei gol in una partita di FA Cup dopo essere stato fuori squadra per settimane devi prendere “Helter Skelter” e metterla a tutto volume perchè Georgie è ancora lì, dopo il sesto gol, appoggiato al palo della porta avversaria, sporco di fango con uno sgardo perso nel vuoto, che si sta chiedendo che mondo assurdo è questo da non rendersi conto che il talento, il suo talento, non ha freni, non ha catene e che per liberarlo devi lasciargli fare, anche fuori dal campo tutto quello che vuole.

Georgie non trovò mai una risposta a questo quesito e quella risposta non l’hanno mai trovata nemmeno Garrincha, Diego, Gazza e tutti gli altri locos del calcio senza i quali questo gioco sarebbe solo una sequela di calci ad un pallone e basta. E mentre vedi i suoi gol, i suoi dribbling e le corse sulla fascia con passo leggero trattando il pallone come se fosse di vetro allora parrà  di ascoltare l’imponente crescendo di “Hey Jude” fino alla fine.

Photo: Ross, CC BY-SA 2.0, via Wikimedia Commons