Siamo parte di una società  schizofrenica, la quale cerca, disperatamente, un equilibrio che è solamente apparenza e formalità . Nel frattempo, però, mentre consumiamo il nostro tempo in inutili sofismi, piccoli e grandi Trump, piccoli e grandi Putin, piccoli e grandi Erdogan spuntano ovunque nel mondo. Riescono ad imporsi facilmente perchè offrono quelle che sembrano le soluzioni più veloci, più dirette e più semplici; soluzioni che, in realtà , non sono assolutamente tali, ma che, invece, sono la sistematica riproposizione di un modello ed uno schema politico, sociale, legislativo ed economico di tipo repressivo. Uno schema ricorrente che punta a difendere gli interessi delle solite lobby e delle solite corporazioni, mentre la maggioranza della popolazione è costretta a vivere nella paura, nella sfiducia e nella reciproca diffidenza, rinunciando, di conseguenza, a quei diritti fondamentali, conquistati, con decenni di rivendicazioni e di lotte, dalle generazioni passate, purchè gli venga garantito un minimo livello di sicurezza.

Lugi Porto conduce le proprie percezioni personali, gli stimoli provenienti dal mondo in cui vive e lavora, i fatti di cui è ed è stato testimone, in una dimensione intrisa di suadente elettricità  e psichedelia, costruendo trame sonore che annullano le distanze tra realtà  distanti e che, soprattutto, riescono a riportare in superficie quei sentimenti che, spesso, preferiamo tenere nascosti, in quando considerati espressione di fragilità  ed eccessiva debolezza.

“Morningside” ci mostra un contesto sociale che è profondamente diverso da quello del recente passato, nel quale l’arte tentava di ribaltare la staticità  esasperante dello status quo vigente. Oggi, invece, sono le politiche più o meno reazionarie, più o meno sovraniste, più o meno liberiste, a tentare di scardinare e ribaltare quei valori di equità , di inclusività , di solidarietà  e di giustizia, ai quali, almeno sulla carta, le varie nazioni si richiamano. Dunque, in questo contesto così divisivo, nel quale operano forze brutali, violente e distruttive, quale strada può percorrere la musica?

L’unica strada possibile è quella che si richiama alla purezza di “Uljhan”, quella che ci mostra la cupa realtà  di “Family”, quella che passa attraverso la ricostruzione, cercando di appianare le differenze esistenti e di opporsi alla trasformazione della nostra società  in un insieme di caste rigorosamente disgiunte e separate tra loro. Un meccanismo che è stato avviato da tempo; un meccanismo che fa dell’emarginazione, delle periferie, dell’autoritarismo, del bullismo sociale, della manipolazione mediatica, i suoi tratti distintivi, mentre le nostre città  si riducono a isolati e statici micro-mondi, minuscole bolle, costruite in base alle disponibilità  economiche, al colore della pelle, alle proprie tradizioni e credenze religiose, tra le quali diventa impossibile spostarsi, così come diventa impossibile sognare un futuro diverso da quello previsto e permesso dalla propria bolla d’appartenenza.

Vogliamo, davvero, un mondo così? Questa domanda si insinua tra le trame morbide ed accattivanti, ma, allo stesso tempo, anche drammatiche e vibranti, di “Tell Uric”. Vogliamo, davvero, un mondo nel quale non sia più possibile scegliere la direzione nella quale muoversi, conoscere, crescere, sperimentare o costruire? Questi otto brani sono un incitamento a superare qualsiasi compartimento stagno di idee, di pensieri, di comportamenti e di emozioni. Sono un invito a seguire la direzione più congeniale ““ senza lasciarsi influenzare dal mondo esterno, nè dai propri timori e dalle proprie insicurezze ““ costruendo un messaggio umano, intriso di sonorità  indie-rock, frutto di una lucida analisi di quella che è la nostra contemporaneità , dei suoi conflitti, delle sue convinzioni, delle sue assurde follie.