C’è qualcosa di fatalista e rassicurante in questo sedicesimo album in studio di Damien Jurado, prima produzione per la sua personale label, prima prova definitiva di assoluto controllo di tutte le fasi di composizione, dopo la trilogia e la collaborazione con lo sfortunato Richard Swift.

Il cinquantenne di Seattle si concentra su territori a lui più cari, quel folk acustico, intriso di reminiscenze che vanno dal Lou Reed classico allo Springsteen di “Nebraska”, scegliendo di raccontare storie di personaggi di un’America nascosta e fattuale, un pò come suggerisce l’enigmatica copertina, un passaggio dimenticato, una cosa di tutti i giorni che chissà  quanta  importanza avrà  nel corso del tempo e chissà  per chi questa singola azione conterà  veramente.

Jurado prende le vite di “Helena”, “Tom”, “Joan”, “Jennifer”, le estirpa dalla loro melassa di routine e indifferenza, le fa diventare universali, dà  ad ognuna di esse la determinazione e la fierezza dell’essere umano, calandosi in questa dimensione di   marginalità , parallela al vociare dei media, lontana dai centri nevralgici, da dove succedono le cose ma non per questo non vitale, degna di essere esibita, umile e fragile ma non per questo meritevole di una epica del racconto.

Le canzoni seguono nel feeling questa narrazione, con quel tono crepuscolare, lento ed ammaliante di una voce certamente monocorde ma calda ed intrigante, suoni rarefatti nello stile di Jurado, quasi sempre solo chitarra e voce, qualche linea di tastiera, canzoni dense solo di queste cose, di un artista che riesce a riempire gli spazi oramai con un background e una sapienza conclamata, a cui evidentemente non si può chiedere altro che questo, e fatalmente egli stesso è convinto che sia un bene focalizzarsi solo su questo stile, che è un pò un suo limite in generale, ma Jurado si è costruito tenacemente una reputazione forte e ammirevole, da rocker d’altri tempi, un soggetto laterale alla scena musicale che comunque vista la sua numerosa produzione non esita a riproporsi sulla piazza sempre in modo discreto, ma con un prodotto, uno scrigno sempre prezioso e di rinnovata urgenza,   che bisogna solo avere la pazienza, il desiderio e gli strumenti per apprezzarlo.

Si pensi ad esempio alla migliore del gruppo, “Johnny Caravella”, canzone sui passi falsi e sulla volontà  di riaprire una vita (“all is not lost even if you’re without a direction”), che parte come un brano di Mark Kozelek, per poi far entrare questa chitarra distorta e vibrante che eleva la drammaticità  delle liriche intingendole di una rabbia esplosiva nel climax perfetto dello scorrere dei testi, un affresco violento, crudo e allo stesso tempo profondo sul never letting go, che sa molto di provincia e tradizione anche letteraria  americana, che ci conquista e e ci affascina perchè   sa molto della nostra provincia interiore.