L’ascesa al successo, il susseguirsi di trionfi commerciali e, infine, l’ineluttabile declino, silenzioso o disastroso che sia. è la triste parabola di tante e tante popstar che, dopo anni ““ se non addirittura decenni ““ di assoluto dominio, si fanno via via sempre più irrilevanti, fin quasi a evaporare in una nube di indifferenza. Prendiamo a esempio il caso di Madonna, regina incontrastata della musica anni “’80. Una leggenda inscalfibile ma ormai appannata; non tanto per gli errori o gli scivoloni artistici che pure ci sono stati, quanto per quel normale ma impietoso trascorrere del tempo che ogni cosa appiana e consuma.

E pensare che, allo zenit della sua carriera, la cantante statunitense era una vera e propria divinità . Le bastava tirar fuori un singolo, magari accompagnato da un videoclip dove sfoggiare un look accattivante e lanciare qualche occhiatina maliziosa, per accaparrarsi rapidamente orde di nuovi seguaci. Fu però solo con l’uscita di “True Blue”, terza fatica in studio, che l’artista di origini abruzzesi riuscì definitivamente ad abbandonare il mondo materiale per innalzarsi oltre i limiti dell’umano e raggiungere l’empireo del pop, andando così a formare una santissima trinità  in compagnia dei colleghi Micheal Jackson e Prince.

Seguendo la via aperta dal fortunato “Like A Virgin”, il ciclone madonnaro si abbattè con straordinaria violenza sul pianeta Terra: cinque prodigiose hit spacca-classifiche e trenta milioni di copie vendute, all’epoca record assoluto per un’interprete di sesso femminile. Una conquista frutto di esperienza, lavoro e, perchè no, anche tanta furbizia.

Con il prezioso contributo dei produttori Stephen Bray e Patrick Leonard e l’obiettivo ben fisso in testa di sfondare alla grande, Madonna scrisse e registrò nove tracce dal potenziale commerciale semplicemente mostruoso, ponendo un certo grado di attenzione alla varietà  di stili e contenuti in modo tale da ritagliarsi una fascia di mercato il più possibilmente ampia. Non solo dance-pop, quindi: “True Blue” è un viaggio di quaranta minuti nei meandri della migliore musica mainstream d’antan, figlia di un’era in cui qualità , creatività  e coraggio erano ancora considerati elementi rilevanti in un’opera dall’altissimo appeal radiofonico.

Chiaro, non è tutto oro quel che luccica: questo disco, nettamente inferiore sia al predecessore (“Like A Virgin”), sia al successore (“Like A Prayer”, il primo vero capolavoro di Madonna), presenta una serie di difetti legati principalmente alla sua natura di raccolta di canzoni costruite a tavolino. A far da collante tra tanti storici singoli troviamo, sparsi qua e là , orecchiabilissimi riempitivi che forse in pochi ricorderanno.

La leggerezza, la radiosità  e le atmosfere festaiole che contraddistinguono le frizzantissime “Where’s The Party”, “Jimmy Jimmy” e “Love Makes The World Go Round” riuscirebbero a far apparire un sorriso sul volto persino all’uomo più infelice del mondo ma, per quanto riguarda arrangiamenti e scelta dei suoni, sono invecchiate in maniera atroce.

Restiamo nell’ambito del cosiddetto bubblegum pop per spendere due parole su quello straordinario esempio di originalità  che è la title track; un piccolo gioiellino di scuola Motown che, tra l’incalzante giro di basso sintetico e le eleganti sfumature doo-wop, scorre via mantenendosi in costante equilibrio tra anni ’60 e ’80.

Sul fronte della dance-pop più tradizionale a brillare sono le micidiali “Open Your Heart” e “White Heat”, che restano ancora oggi fresche e coinvolgenti nonostante il massiccio ricorso a strumenti elettronici a dir poco vetusti. è triste doverlo ammettere, ma è la pura verità : “True Blue”, riascoltato a trentacinque anni dall’uscita, sembra un pezzo d’antiquariato. E letteralmente impallidisce, se confrontato con i più o meno coetanei “Parade” e “Bad”.

I tratti innovativi dell’album sono tutti condensati in tre brani, non a caso tra i più celebri e amati dell’intera discografia di Madonna. Criticatissima per i suoi velati messaggi antiabortisti, “Papa Don’t Preach” svetta sulle altre tracce per gli inserti orchestrali digitali e le raffinatezze melodiche dal retrogusto classicheggiante. La spagnoleggiante e malinconica “La Isla Bonita”, farcita di influenze latinoamericane e ritmi caraibici, ha fatto scuola; se non avesse avuto un successo stratosferico nelle charts, forse in seguito non avremmo avuto Ricky Martin, il reggaeton e compagnia cantante. Sarebbe stato meglio? Senza ombra di dubbio sì. La canzone, tuttavia, resta memorabile. Proprio come “Live To Tell”, una ballad estremamente intensa e pressochè perfetta che Madonna interpreta mettendoci l’anima, il cuore e un primo barlume di quella maturità  che, a partire da “Like A Prayer”, le permetterà  di fare il definitivo salto di qualità . Un balzo nell’alto dei cieli, molto prima di tornare a essere una semplice mortale.

Data di pubblicazione: 30 giugno 1986
Tracce: 9
Lunghezza: 40:25
Etichetta: Sire / Warner Bros.
Produttori: Madonna, Stephen Bray, Patrick Leonard

Tracklist:
1. Papa Don’t Preach
2.Open Your Heart
3. White Heat
4. Live To Tell
5. Where’s The Party
6. True Blue
7. La Isla Bonita
8. Jimmy Jimmy
9. Love Makes The World Go Round