Se mi ponessero, tutt’oggi, l’improbabile domanda “quale band vorresti rinchiudere in un carillon?“, come una bimba viziata, risponderei senza esitazione: i Kings of Convenience. Rincarerei addirittura la dose egoisticamente, dicendo che vorrei suonassero solo per me, come due minuscole miniature segrete, poste sul comodino di fianco al mio letto, il cui unico compito sarebbe quello di accompagnare il mio dormiveglia. Fortunatamente per tutti, però, la realtà  è ben diversa ed il mondo intero può fruire della loro musica.

Silenziosamente, come i migliori supereroi, che tornano proprio quando il mondo ha più bisogno di loro, (vedi, ad esempio, l’emblematica “Ask For Help”), dopo ben dodici anni di assenza dalla scena musicale, i Kings of Convenience riappaiono con un nuovo album dolce e inaspettato: “Peace or Love”.

Il duo norvegese, composto da Erlend à’ye ed Eirik Glambek Bøe, ci srotola magicamente ai piedi undici nuovi brani, fatti di melodie spoglie, oneste e perfettamente bilanciate. Arricchite dalle preziosissime collaborazioni di una veterana del calibro di   Feist, canzoni come “Love Is a Lonely Thing” e “Catholic Country”, (quest’ultima scritta, tra l’altro, assieme alle Staves), non faticano affatto a fare breccia nei nostri cuori già  proiettati, ahinoi, verso una seconda estate molle e piena d’incertezze.

Il nuovo album viene anticipato dal singolo “Rocky Trail”, le cui tinte pastello ed il cui amabilissimo video ci ricordano tanto la predilezione dei KOC per un certo tipo di piano sequenza ed un certo tipo di atmosfera sognante. A tratti si percepisce l’eco di una lontana, ma incredibilmente familiare “Misread”, ed è come se à’ye e Bøe volessero fare un ritorno in pompa magna, appellandosi, quasi per diritto divino, ai fan nostalgici dei tempi di quelle sacrosante perle musicali di “Quiet Is the New Loud” (2001) e “Riot on an Empty Street” (2004).

“Peace or Love”, scritto e registrato in cinque anni ed in cinque città  diverse, è un disco permeato di una maturità  che rispecchia l’età  degli autori, ma il cui sound continua a mantenere, costante, una sempre gradevole sotto nota dolciastra e “naive”, inequivocabile segno distintivo che ci ha fatti innamorare del duo. Proprio l’amore, tematica onnipresente nella poetica musicale del duo, nell’ultimo lavoro viene affrontato con sospetto ed un pizzico d’ironia. Talvolta la melodia assume tinte marcatamente ombrose, come nel caso di “Killers” o “Songs About You”, e ci fa presagire il raggiungimento di nuance sonore più scure e dubbiose, che se non vanno a turbare il sempre imperturbabile aplomb dei KOC, di sicuro mostrano quanto si possa forgiare qualcosa di brillantemente nuovo e stuzzicante, semplicemente cambiando la rotta in modo quasi impercettibile.

Che l’armonia vocale di Erlend à’ye ed Eirik Glambek Bøe non abbia pari, ormai, lo si sa, ma quel che ancora stupisce l’ascoltatore, dopo vent’anni di attività  musicale, è la voglia, forse inconsapevole, ma comunque sempre presente e rinnovata, di creare delle canzoni atte ad accompagnare determinate fasi della vita. Brani come “Fever” e “Comb My Hair”, infatti, suonano come un ritorno educato ed allegro all’essenza più pura della band. Una celebrazione entusiastica della semplicità  del ritrovarsi, del rivivere appieno una certa sintonia e complicità  che resiste, infrangibile, anche a distanza di molti anni.

L’arrivo dell’ultimo lavoro della band ha, di sicuro, molto in comune con l’arrivo di quest’estate: entrambi si sono fatti attendere fin troppo a lungo. Con “Peace or Love”, Erlend à’ye ed Eirik Glambek Bøe fanno, però, di nuovo, elegantemente centro, e ci regalano un album che ha la stessa freschezza e spontaneità  di un tuffo liberatorio in un mare cristallino. Uno slancio di rivolta vitale e speranzoso che, dopo averci svegliato gentilmente, ci culla nella penombra pomeridiana di una pineta sconfinata, e lo fa dopo mesi e mesi di grigia clausura forzata, ricordandoci che la vita può essere anche deliziosa.