a cura di Valerio Lupi

In un futuro non troppo lontano e  non così tanto dalla rappresentazione futura di un universo postpandemico a noi ancora sconosciuto, l’umanità  è regredita ad età  della pietra. Pochi gli indizi sulle cause di questa regressione, se non   qualche riferimento ad un generico “veleno” che potrebbe aver ucciso buona parte della popolazione.

Riprendendo una graphic novel dell’artista Gipi, il regista Claudio Cupellini ci regala un film distopico che potremmo definire cupo al punto giusto. Aiuta e non poco l’ambientazione nelle zone lagunari del nord Italia, accompagnata da un costante cielo plumbeo che spinge al pensiero di un pulviscolo velenoso. C’è la solitudine di “Mad Max”, la sterilità  dell’intera umanità  de “I figli degli uomini”, l’acqua, le barche, le palafitte di uno dei maggiori flop del cinema americano, “Waterworld”. C’è tutto questo e non solo in quest’opera che potremmo definire “cinema autoriale distopico”. Dialoghi ben costruiti a cominciare da quel “non mi perdono più ” di Valerio Mastandrea che racchiude in sè tutto il valore del film.

Spiccano le interpretazioni di Paolo Pierobon nel ruolo del padre e quella di Leon de la Valleè in quello del figlio. Entrambi coinvolti in un rapporto padre -figlio propedeutico al viaggio collodiano che di lì a poco il giovane sarà  costretto ad affrontare. Sono molte le assonanze con l’opera di Collodi, a partire dall’analfabetismo che caratterizza tutti i nati dopo i veleni e quindi tutti i giovani, passando per il viaggio e gli incontri con personaggi assolutamente ignobili nell’animo pronti a far leva sull’ingenuità  della ragazzo.

Una menzione particolare va alla scenografia semplice, bagnata ed alla sua rappresentazione più simbolica, il cancello che si apre sulle acque della laguna, un’apertura al mondo selvaggio e pericoloso.

“La terra dei figli” riporta il cinema di genere al centro della nostra cinematografia. Un film cattivo, con un barlume di speranza sul futuro lasciata nell’ultima scena dal regista. Un film che dovremmo definire coraggioso in quanto totalmente realizzato in Italia, al di fuori della concezione classica della nostra produzione cinematografica (tolta qualche eccezione degli ultimi cinque o sei anni). Pensato, scritto, girato, prodotto in Italia, qualcosa si muove nel panorama cinematografico italiano.