è destinato a restare un mistero il motivo per cui Prince, una volta ultimati i lavori su “Welcome 2 America” nella primavera del 2010, decise di abbandonarne i master sugli scaffali dell’immenso archivio che occupa il seminterrato di Paisley Park. Delusione per il risultato finale? Oppure, come suggerito dallo storico collaboratore Morris Hayes, una scelta legata all’impossibilità  di avere con sè in tour la giovane bassista Tal Wilkenfeld, fulcro ritmico del disco insieme al batterista Chris Coleman?

Sarà  pure ovvio dirlo, ma una cosa è certa: se il geniale artista di Minneapolis non fosse morto in quel maledetto 21 aprile 2016, oggi non saremo qui a parlare di questo album. Con enormi probabilità , Prince avrebbe recuperato, rielaborato e riregistrato queste dodici tracce per includerle in altri progetti. Anzi, tanto per essere precisi, la seconda vita di “Welcome 2 America” era già  iniziata nel dicembre 2015. In “HITnRUN Phase Two”, l’ultimo lavoro pubblicato in vita, sono infatti presenti versioni alternative di “1000 Light Years From Here”, che fa da coda alla lunga “Black Muse”, e di “When She Comes”, una calda e sensuale ballata soul tutta interpretata in falsetto.

Nelle loro vesti originali le due canzoni, così come le loro altre dieci “compagne”, sembrano suonare quasi spoglie, a tratti persino grezze; non vi è neppure l’ombra di quelle sonorità  pompose, artificiali e sovraprodotte che, dispiace dirlo, erano diventate all’ordine del giorno per il Prince del periodo compreso tra “Art Official Age” e “”HITnRUN Phase One”. “Welcome 2 America”, nonostante gli arrangiamenti curatissimi e la cura minuziosa riservata ai cori, alle armonie e alle parti vocali più in generale, è un disco naturale e schietto, concepito per essere riprodotto senza troppe difficoltà  dal vivo.

I brani, che hanno preso forma nel corso delle lunghe e fruttuose sessioni portate avanti con i già  citati Wilkenfeld e Coleman, proiettano l’ascoltatore in una dimensione a tutti gli effetti live. Gli elementi sintetici, che pure non mancano, hanno sempre un ruolo marginale; la chitarra elettrica è letteralmente padrona della scena, anche dove le tastiere giocano un ruolo di rilievo e garantiscono alti livelli di energia (“Yes”, “1010 (Rin Tin Tin)” e “Hot Summer”).

La modernità  è relegata sullo sfondo, quasi schiacciata dalla riscoperta di quelle radici R&B, funk, soul, pop e rock che Prince, con un occhio di riguardo per le lezioni apprese dai maestri degli anni ’60 e ’70 (Curtis Mayfield, Jimi Hendrix e Sly Stone), trasforma in un mezzo attraverso il quale veicolare i timori, le speranze e le visioni di una società  che invece cambia alla velocità  della luce. Linguaggi antichi per parlare di una realtà  ““ quella del 2010, naturalmente ““ tristemente simile a quella attuale.

In più di un’occasione i contenuti dei testi distolgono l’attenzione dalla musica. Nelle intenzioni di Prince, “Welcome 2 America” sarebbe dovuto diventare un vero e proprio manifesto politico sugli Stati Uniti di Barack Obama, analizzati e criticati prendendo spunto dai temi più disparati. Centrale è quello del rapporto tra potere e tecnologia: si passa dagli incubi orwelliani della title track, elegantissima e dal passo felpato, all’overdose social di “1010 (Rin Tin Tin)”, dove si racconta di “persone analogiche in un mondo digitale” annichilite dal sovraccarico informativo del web.

I toni polemici o d’accusa contro le case discografiche (“Running Game (Son Of A Slave Master)”, in buona parte cantata dalla corista Shelby Johnson) e il razzismo (la stranamente solare “1000 Light Years From Here” e “Born 2 Die”, con le sue splendide note progressive soul) sembrano quasi entrare in contrasto con la leggerezza di “Hot Summer” (una specie di nuova “Play In The Sunshine”, ma decisamente dimenticabile), la carica funk rock di “Check The Record” e “Same Page, Different Book” e la serenità  di “Stand Up And B Strong” (cover ampiamente rimaneggiata di un singolo dei Soul Asylum di una quindicina di anni fa) e di “One Day We Will All B Free”.

Elementi discordanti che, tuttavia, non intaccano la coesione di un album sorprendentemente convincente, per quanto incapace di aggiungere qualcosa di davvero importante alla ricca e variegata storia della musica princeiana. Per i veri e propri fuochi d’artificio, attendiamo speranzosi la pubblicazione degli inediti anni ’80. Non lamentiamoci però, e cerchiamo di vedere il bicchiere mezzo pieno: se per qualche motivo siete innamorati del Prince targato 2000 e apprezzate le atmosfere raffinate e jazzate dell’ingiustamente dimenticato “The Rainbow Children”, in “Welcome 2 America” troverete pane per i vostri denti.