Partiamo da una premessa. Per parlare di questa band e questo album, ho bisogno di prendermi un secondo per assaporare di nuovo i bei vecchi tempi. Con “Pressure Machine” (album annunciato meno di un mese fa e senza anticipazioni se non un tesser trailer) i  The Killers abbandonano definitivamente tutto ciò che hanno costruito nel corso della loro carriera, facendoci dimenticare per sempre le hit che hanno segnato intere generazioni.

Sia chiaro: sono il primo a dire che una band o un’artista debba evolvere e non rimanere allo stato iniziale. Certo è vero, però, che un gruppo come quello di  Brandon Flowers  sia partito con alte aspettative, arrivando poi a deludere gli ascoltatori più accaniti. Io tra quelli. E se “Mr. Brightside”, “Jenny Was a Friend Of Mine” e “Somebody Told Me” mi hanno fatto innamorare del gruppo di Las Vegas, ora quell’amore si è trasformato in odio.

Raga, ma che due palle. Cioè, posso capire che “Pressure Machine” sia un concept album post pandemico, un’analisi sul ritorno alla “vita normale” e alle origini (in questo caso del frontman che ritorna a Nephi nello Utah dove è cresciuto), ma il tutto viene confezionato per essere presentato al pubblico come una noia mortale.

Non c’è nulla di nuovo e di originale se non i testi. Testi scritti ancora prima della musica, dice Flowers in un’intervista all’alba dell’uscita del disco. I temi sono vari, dal ragazzino beccato con l’ossicodone in  “West Hills” al teenager gay che contempla il suicidio in “Terrible Thing”. In aggiunta, all’inizio di ogni bravo troviamo registrazioni di cittadini reali che aprono la canzone con una testimonianza vera e significativa. Dopo il terzo però anche basta.

Il problema però è sempre nella musica che, anche in questo caso, non riesce a cozzare bene con i testi potenti (solo per quest’ultimi ho dato un cinque alla loro ultima fatica, altrimenti sarei stato più ingeneroso). Le basi sono sempre le stesse, arricchite solo da un’armonica che dà  proprio l’idea di vasti orizzonti americani con bufali che corrono e un cowboy che cavalca.  La batteria di Vannucci Jr. è statica ai soliti tempi e neanche il (semi) ritorno di Dave Keunig  riesce a migliorare il sound generale.

Non trovo neanche le collaborazioni decenti: prendiamo per esempio “Runaway Horses” con  Phoebe Bridgers, una ballad country a base di chitarra, piano e violini che non sa di niente e in uno stile che solo una persona può permettersi di avere ovvero  Bruce Springsteen. E loro si ispirano molto al Boss, ma non lo dicono a nessuno (è sottinteso, quello sicuro) confezionando qualcosa che non è un omaggio, ma una banalissima copia di roba vista e rivista!

Tirando le somme: i vecchi  The Killers dobbiamo dimenticarceli, oramai è da “Battle Born” che non tirano fuori un album completo decente. La deriva è monotona da 11 anni, non riuscendo a ritagliarsi un vero spazio nel rock contemporaneo come avevano fatto fino al 2008 quando uscì “Day Age”. Non dico che un gruppo non debba sperimentare, ma in questo caso mi sembra molto che, più che sperimentare, sia un tirare avanti giusto per pagare le bollette. Gli anni degli anthems sono finiti oramai da un pezzo, e Flowers & co. sopravvivono solo grazie a questo. Il solito ritorno eroico e pomposo a cui ci hanno abituati qua non esiste, e forse è un bene a dirla tutta, ma la modestia di questo album non gli si addice e, piuttosto, rovina l’aura di un gruppo che ha fatto tanto.