Jeff Ament ha scritto e registrato le dodici tracce di “I Should Be Outside”, il suo quarto disco solista, nei mesi più bui e tragici della pandemia di COVID 19, ovvero quelli che da noi in Italia sono stati all’insegna di canti dai balconi, pagnotte fatte in famiglia, urticanti slogan ottimistici, ospedali al collasso e carovane di bare. Un incubo che il bassista dei Pearl Jam ha vissuto rintanato in una casa del Montana, lontano anni luce dal caos delle grandi metropoli americane e dagli sconclusionati sproloqui minimizzanti del presidente Trump.

A fargli compagnia solo la musica e la pittura, due vecchie passioni che gli hanno consentito di affrontare l’insopportabile autoisolamento senza perdere la testa. Tutto il processo di lavorazione dell’album è stato influenzato dal desiderio assillante ““ ma impossibile – di sgusciare via dalle pareti domestiche e stare fuori, a divertirsi con gli amici o a suonare di fronte alle migliaia e migliaia di fan che, poveri illusi, avevano già  acquistato in massa i biglietti per l’ormai pluri-posticipata tournèe di supporto a “Gigaton”.

Un’opera sicuramente di evasione ma nata quasi controvoglia, figlia della noia mortifera del lockdown e della necessità  di riempire giornate grigie e monotone. Non proprio il migliore dei presupposti per un lavoro di qualità , non credete? E infatti “I Should Be Outside”, in larghissima parte, rappresenta una cocente delusione. Si ha l’impressione di avere a che fare con una raccolta di demo scarne e incompiute, registrate alla bell’e meglio da un Jeff Ament non particolarmente ispirato ma in preda ai fumi di una creatività  grezza e disordinata.

Poco o nulla va per il verso giusto in quest’album di rock stantio – tedioso quando non addirittura deprimente – in costante bilico tra banalità  dal gusto vagamente post-punk (“Lightmoves”, “Life”, “O.O.F.”, l’atroce “Despite All Odds”) e soporifere parentesi “classiche” o simil-folk (“Sweet Boy”, “Dead Ends”, “Bandwidth”). Il fatto che Ament sia un cantante estremamente poco dotato di certo non aiuta; è anche vero, però, che nei brani leggermente più interessanti di “I Should Be Outside” (“I Hear Ya”, “Passion Denied” e “For The Ones”) le scarse capacità  interpretative non compromettono i risultati.

E allora qual è il vero problema? Credo di averlo già  detto, ma è giusto ripetere in chiusura: poche idee espresse male per un disco dal sound scadente. Un work in progress mandato in stampa in fretta e furia, senza concedersi il tempo necessario per rimpolpare e rifinire una manciata di canzoni monche e stanche. Peccato, perchè Jeff Ament non è solo un musicista di livello, ma anche un autore coi fiocchi. L’ha dimostrato ampiamente coi Pearl Jam, mettendo la firma su una serie di pezzi indimenticabili (“Jeremy”, “Nothing As It Seems”, “Indifference”, “Nothingman” e “Smile”, giusto per citare i piatti forti), ma anche da solo (vedi il precedente “Heaven/Hell”). Facciamo così: per il prossimo lockdown fai una scorta di lievito di birra e goditi qualche bella serie TV su Netflix, ok?

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