L’anello debole nella discografia anni ’80 degli Iron Maiden? Oppure un album tremendamente sottovalutato? Sarà  pure passata una vita dall’uscita di “Somewhere In Time”, ma il sesto lavoro in studio della band britannica continua a dividere e a far discutere i fan come fosse stato pubblicato ieri. D’altronde è il titolo stesso a suggerirci quello che poi è effettivamente stato il destino di un’opera che trascende il concetto di tempo e spazio non tanto per distinguersi dalla media, ma per perdersi nei labirinti delle perenni polemiche e incomprensioni.

Registrato tra gli Stati Uniti, le Bahamas e i Paesi Bassi all’inizio del 1986, pochi mesi dopo la conclusione del trionfale ma estenuante tour di supporto a “Powerslave”, “Somewhere In Time” viene spesso considerato il disco della svolta commerciale degli Iron Maiden. Uno spartiacque tra gli anni felici della New Wave of British Heavy Metal dura e pura e quelli del successo a livello globale, segnati da vendite da capogiro e folle oceaniche ai concerti.

Un album di transizione quindi – ancora fedele al sound classico del quintetto ma ricco di elementi inediti, alcuni dei quali digeriti con difficoltà  dagli oltranzisti del metallo. La presenza costante e alquanto invadente dei sintetizzatori può effettivamente far storcere il naso, perchè non sempre capace di evocare quegli scenari futuristici e fantascientifici tanto ben rappresentanti dal disegnatore Derek Riggs in copertina.

Le tastiere aggiungono pathos alle note epiche di “Heaven Can Wait”, un coinvolgente inno da stadio con cori e ritornelli da cantare a pieni polmoni, ma affondano le già  di per sè deludenti “Stranger In A Strange Land” e “Deja-Vu”, dal sound davvero troppo levigato e pulito per i canoni dei giovani Iron Maiden.

La band, per quanto affascinata dalle nuove tecnologie e dalle sonorità  sintetiche, resta però sempre fedele ai propri principi, senza farsi sedurre dalle sirene del mainstream. La produzione di Martin Birch esalta l’aggressività  e l’energia delle composizioni di Steve Harris, Adrian Smith e Dave Murray, senza accentuare di una virgola la potenza di fuoco di una Vergine di Ferro magari non eccessivamente ispirata, ma più matura ed esperta che mai.

Perchè, in fin dei conti, la ricetta della felicità  è semplice: bastano gli intrecci armonici tra le due chitarre, le galoppate ritmiche del basso e della batteria e la voce maestosa di Bruce Dickinson per avere un brano degli Iron Maiden degno di essere tramandato ai posteri. E in “Somewhere In Time” troviamo più di qualche perla: “Caught Somewhere In Time”, “Wasted Years”, “Sea Of Madness” e la lunghissima “Alexander The Great (356-323 B.C.)” quelle da andarsi a recuperare per celebrare a dovere questo trentacinquesimo anniversario.

Data di pubblicazione: 29 settembre 1986
Tracce: 8
Lunghezza: 51:18
Etichetta: EMI
Produttore: Martin Birch

Tracklist:
1. Caught Somewhere In Time
2. Wasted Years
3. Sea Of Madness
4. Heaven Can Wait
5. The Loneliness Of The Long Distance Runner
6. Stranger In A Strange Land
7. Deja-Vu
8. Alexander The Great (356-323 B.C.)