Sinceramente non avevo dubbi sulla qualità  delle nuove canzoni di Matthew E. White che approda al suo “difficile” terzo album dopo ben sei anni dal precedente.   “K bay” è un ulteriore viaggio che il factotum della Virginia ci propone negli sterminati spazi della cultura musicale americana del miglior r&b/soul, con quella angolazione southern che è qualcosa anche di estetico oltre che di sensazione, un calore visivo, un abbraccio vitale sempre presente, musica dove dentro si può ballare quando si alzano i ritmi e succede spesso in “K bay”, oppure abbandonarsi a qualche languida melodia o sorprendersi con l’epica di una composizione orchestrale.

Non avevo dubbi perchè White è essere umano fatto principalmente di musica, lo si vede al primo istante, un capellone oramai di lunga data cresciuto a suonare e suonare, ascoltando dischi fine anni 70, qui EW&F, tutta la roba di Memphis,   moltissimo Sly, con enorme perizia sui suoni, qui come non mai perfettamente band leader, dominatore di un gruppo di   musicisti che addomestica alla grande, che si concentra sulla figura del leader ma che di fatto è l’arma in più di un disco dove le canzoni, non tutte, esplodono o in foma sincopata (“Nested”) con ritmi e pulsioni quasi psichedeliche, da ricordare i migliori !!!, o in liberatorio disco funk piacione (“Let’s ball”, “Judy”, le più dirette), probabilmente i brani più coinvolgenti mai scritti dal producer americano. A dirla tutta, “K bay” sembra proprio la versione insight del recente lavoro fatto da St Vincent col suo “Daddy’s home”, dove mentre la newyorkese si approcciava nel suo modo al solito fagocitante alla materia sixties e non solo, qui il ragazzotto del Sud è meno ambizioso nella forma, forse più convinto dei mezzi, di certo più padrone del bagaglio culturale.

Non c’è quindi nessuna “genuina esitazione” nel modo in cui White azzanna le sue composizioni, come se avesse sempre la consapevolezza del suo carisma da vero fuoriclasse che in realtà  è. Uno capace di passare da ELO (“Electric”) a cose alla Cat Stevens virato in crooner (“Only in America”), senza disdegnare ballad alla Stones (“Shine a light on me”) e dando continuamente il senso di divertirsi parecchio a fare tutto questo, basta vedere i video che accompagnano l’album, passione analogica e super autoironia, senso del sound e azione: insomma, non è che si trova proprio così facilmente tutto sto talento in un’unica persona,   ma non avevo dubbi su questo.

Come non ne avrò sul fatto che di lui ce ne ricorderemo solo al prossimo album, dicendo più o meno le stesse cose scritte qui, perchè Matthew è fatto di una pasta troppo intensa per essere abbordabile ai più, ascoltare un suo disco vuol dire farsi assorbire,   certo anche ballare, ma bisogna essere pronti ad cogliere il background di tutto ciò,   decenni di suoni, fatti di storie anche noiose di musicisti che ce l’hanno fatta o veri losers, all’evoluzione del sound, di chi è stato attaccato al sound   ne ha fatto uno stile di vita, alle raffinatezze e soprattutto associazioni che creano la dimensione sensoriale del suo mondo, che sono diciamocelo troppo per questi tempi fatti di poco tempo, di scarsa profondità  e di ascolto poco attento. Così, resterà  sempre quell’artista che quando guardi il cartellone di un festival rock, come a me capitato, ti viene da dire che quest’anno la programmazione è buona, c’è anche uno bravo come Matthew E.White.

Ecco, uno bravo come Matthew E.White; ma forse  sono le solite previsioni saccenti e sto giro fa il botto, sto giro spopola in America, dappertutto, di sicuro ascoltando questo “K bay” ci divertiamo, “let’s ball tonight”!