I  Counting Crows  rientrano di diritto tra i gruppi più ascoltati della mia giovinezza, quando non ancora maggiorenne fui travolto dal loro sound e dal loro  mood, molto in linea con la grande tradizione americana: un rock “classico” se vogliamo, ma estremamente affascinante, con i suoi rimandi folk, gli accenni blues e la capacità  di mischiare sapientemente pop e rock. E poi, le melodie, così innate, e la voce di  Adam Duritz, che non faticai a indicare tra le più belle e profonde che avessi mai sentito prima.

Per quanto nel 1993 fossimo in piena fase grunge  anche in Italia, dopo i fasti di “Nevermind” e “Ten”, e nonostante l’eco dei  Nirvana, dei  Pearl Jam, dei  Soundgarden  ““ e ci metto dentro un po’ forzatamente anche i grandi  Smashing Pumpkins  ““ fosse ancora lontano dal disperdersi, nella musica dei  Counting Crows  (combo originario di San Francisco, formato da ben sette elementi) riuscii a sentirci molto altro di interessante, persino qualcosa dei miei amati  R.E.M. (già  al tempo il mio gruppo preferito in assoluto), specie laddove erano in grado di toccare le corde più sensibili, di insinuarsi sotto pelle e, più generalmente parlando, di farmi stare bene!

Giunti nell’ottobre del 1996 molte cose erano in cambiate, non solo nella mia vita, visto che da pochissimo avevo iniziato il primo anno di università , ma anche, allargando il cerchio, in ambito musicale, con l’imperante grunge che ormai aveva quasi perso la sua ragion d’essere, dopo la tragica fine del suo uomo simbolo e il fiorire copioso di tanti gruppi che sembravano solo dei cloni degli originali (gente pur talentuosa e baciata da un grande successo di pubblico: un nome su tutti, i  Bush  di  Gavin Rossdale, che però non sembravano possedere quel fuoco sacro dei padri del genere).

In mezzo a tutto questo, era grande la mia attesa per il secondo album a nome Counting Crows  che sarebbe stato pubblicato il 14 ottobre di quell’anno, e guardandomi indietro, devo ammettere che a un primo ascolto ““  ma mi pare chiaro si dovrebbe sempre andare oltre prima di avventurarsi in un giudizio critico ““  l’album “Recovering the Satellites” non mi colpì molto, eccezion fatta per la dolente ballata “A Long December”, quella sì capace di emozionarmi profondamente.

A distanza di tanti anni (venticinque!) e volendo scriverne una retrospettiva, anche alla luce del percorso poi svolto dal gruppo da allora fino ai giorni nostri, occorre invece rimarcare quanto forse questo disco rimanga l’ultimo esempio di lavoro incline a quell’attitudine a stelle e strisce di voler dare una dimensione adulta, matura, a un pop che altrimenti sarebbe appannaggio di tanti fenomeni effimeri non in grado di rappresentare al meglio una vasta fetta di popolazione.

Per quanto meno viscerale e ispirato del brillante esordio “August and Everything After”, infatti, il  sophomore  di  Duritz  e soci contiene comunque brani dal medesimo ampio respiro e dalle tematiche esistenziali in cui molti possano identificarsi, che si tratti della fine di un amore o della ricerca di un sogno che ti faccia evadere da una realtà  priva di scossoni, in cui ogni giorno sembra uguale all’altro.

Piuttosto, sarà  dai successivi, dal melodico “This Desert Life” e soprattutto dal ben più celebrato “Hard Candy”, che emergerà  una vena smaccatamente commerciale, con la ricerca del singolo “facile”; nulla però a che spartire con “Mr. Jones”, loro capolavoro dove il felice connubio di melodia orecchiabile e testo accattivante rimane insuperato.

Insomma, “Recovering the Satellites”, a detta di chi scrive, andrebbe rivalutato e valorizzato in quei momenti in cui la penna del carismatico  frontman  tocca vette di intenso lirismo, e dove la matrice musicale mostra quegli sprazzi di originalità , grazie agli interventi ficcanti dell’organo di  Charles Gillingham  e alla vivacità  delle chitarre di  David Bryson  Dan Vickrey.

Canzoni come la già  citata “A Long December” ne sono un emblema magnifico, tra le note malinconiche del pianoforte e di una calda fisarmonica, il cantato sofferto del leader, e un arrangiamento che mette in evidenza lo spessore di una band dove ogni elemento concorre alla felice resa del tutto.

Restando nell’ambito dei brani lenti, una menzione va anche alla toccante “Miller’s Angels” e all’ode “Goodnight Elisabeth”, vagamente countryeggiante, mentre sul versante “veloce”, non si può resistere alla piacevolezza di “Have You Seen Me Lately?”:  easy listening, certamente, ma di gran classe.

Molto riuscite risultano pure “Daylight Fading” e “Angels of the Silences”, gradevoli  mid-tempo, trascinanti e coinvolgenti, così come una title track  dai toni notturni, l’evocativa e sognante “Another Horsedreamer’s Blues”, e l’iniziale “Catapult”, che parte piano per poi salire vorticosamente, avvolgendo l’ascoltatore col suo climax sonoro.

E’ vero, il disco è completato da brani non memorabili, che mostrano come la band stesse probabilmente cercando di battere altre strade, azzardando scelte poco consone alla loro raffinatezza musicale, e dove magari ci si ferma solo a qualche intuizione; il riferimento è alla solare “Monkey”, che vorrebbe mettere in luce un’altra faccia del gruppo, più colorata e allegra, ma che risulta infine piuttosto banale, oppure a quegli episodi stucchevoli come la pomposa e schizofrenica “I’m Not Sleeping”.

Nella fase di ogni gruppo o artista ci sono periodi di transizione, che possono avere radici lontane: in questo caso la “colpa” maggiore di “Recovering the Satellites” è quella di essere giunto dopo un esordio con i fiocchi, di quelli che si fanno ricordare.

La discontinuità  è forse l’unico difetto, a conti fatti, di questo secondo disco dei  Counting Crows, che però nei suoi momenti migliori ci fa vedere un gruppo dal grandissimo talento.

Counting Crows ““ Recovering the Satellites
Data di pubblicazione:  14 ottobre 1996
Tracce:  14
Lunghezza:  59:22
Etichetta:  Geffen Records
Produttore:  Gil Norton

Tracklist
1. Catapult
2. Angels of the Silences
3. Daylight Fading
4. I’m Not Sleeping
5. Goodnight Elisabeth
6. Children In Bloom
7. Have You Seen Me Lately?
8. Miller’s Angels
9. Another Horsedreamer’s Blues
10. Recovering the Satellites
11. Monkey
12. Mercury
13. A Long December
14. Walkaways