Strana e avvincente parabola quella degli inglesi Pulp, guidati dall’istrionico e talentuosissimo Jarvis Cocker: fossimo in un campionato di calcio (magari la Premier League, tanto per rimanere in tema) si potrebbe dire che, dopo avervi debuttato nei primi anni ’80 (l’album d’esordio “It” risale al 1983) e conseguito delle sudate salvezze, il gruppo prese quota arrivando dapprima a giocarsi la qualificazione alle Coppe (ai tempi dell’interessante “His ‘n’ Hers”, datato 1994), fino ad entrare stabilmente nell’èlite internazionale con album come “Different Class” (1995) e “This Is Hardcore” (1998), questi ultimi i veri capolavori di un’intera carriera, seppur diametralmente opposti per mood, lirismo e intenzioni.

Fuor di metafora, è indubbio come la band di Sheffield abbia saputo attraversare epoche diverse, riuscendo a rimanere in sella nei momenti difficili (quando nessuno sembrava pronto a scommetterci), per arrivare ad esplodere definitivamente senza preavviso, tanto da finire tra i nomi più importanti non solo del movimento britpop, ma proprio di un intero decennio (i magnifici nineties, s’intende).

Credo infatti che tutti gli appassionati di musica, non solo i più avvezzi e sintonizzati sulle onde britanniche, a precisa domanda su quali fossero i gruppi simbolo di quell’epoca, saprebbero indicare anche i Pulp tra questi, talmente grande fu l’impatto, anche mediatico, che Cocker e compagni ebbero sull’intera scena, dopo il tempo trascorso nelle retrovie.

Ma ogni cosa ha un suo prezzo, specie quel “mostro” chiamato successo che, per quanto inseguito e agognato a lungo, può infine essere portatore di risvolti negativi, finendo per scombussolare intere esistenze e rimettere in discussione priorità  e valori.

I Pulp risposero a tutto quel gran clamore suscitato all’uscita di “Different Class” (forte di canzoni dal grande immaginario come la paradigmatica “Common People” o “Disco 2000”, divenute presto delle evergreen) e alla conseguente loro vasta esposizione (in particolare del già  citato leader), con un album dai toni cupi, crepuscolari, persino tragici come “This Is Hardcore”, quanto di più lontano dai lustrini del pop. Nel frattempo però se n’era già  andato il braccio destro di Jarvis, quel Russell Senior che molto contribuì a ridefinire il sound dei Nostri, rendendolo vincente e riconoscibile.

Sono in molti a riscontrare in quel disco oscuro e romantico l’apogeo del percorso artistico della band, una sorta di finale perfetto, chiusura del cerchio di un’esperienza musicale così diversa da quella di tanti gruppi coevi che erano riusciti infine ad eguagliare (almeno in Patria): due nomi su tutti, i pesi massimi Oasis e Blur. In un ipotetico podio britpop, l’altro nome presente non poteva che essere il loro!

Invece i Pulp avevano concordato che non poteva finire così, e che “This Is Hardcore” era in fondo il solo manifesto possibile, inevitabile, di un momento travagliato, ma che ormai era stato, seppur a fatica, superato e lasciato alle spalle.

Jarvis Cocker voleva quindi apporre la sua firma nel nuovo millennio con un album che recuperasse un po’ il lustro dei suoi anni giovanili, ma veicolati da una maturità  ormai pienamente raggiunta, e da una personalità  sempre complessa ma sicuramente più a fuoco, corroborata da eventi che parevano solo un tenero ricordo.

“We Love Life” dopo una gestazione non certo semplice, specie nel decidere a chi affidare il timone della nave in fase di produzione, vide così la luce nell’ottobre del 2001, esattamente vent’anni fa, con un mondo musicale che era in effetti clamorosamente cambiato dai tempi in cui Cocker veniva definito il “dandy” per eccellenza degli anni novanta, acuto osservatore della società  inglese e dei tic e delle nevrosi dei suoi variopinti cittadini.

Il titolo simboleggia una ritrovata vena positiva, ecumenica, che non sempre però si traduce necessariamente in brani dall’apparato sonoro levigato e brioso. C’era ancora tanta carne al fuoco nelle nuove canzoni, tante emozioni cangianti desiderose di emergere in superficie, senza filtri e censure.

Con piena soddisfazione, fu assoldato come produttore un autentico mostro sacro, vale a dire Scott Walker,che non fatichiamo a credere avesse molto apprezzato i barocchismi del disco precedente, ma stavolta in pratica sembra aver ridotto il suo compito a una mera supervisione, tanto la direzione musicale da conferire ai nuovi pezzi era ben definita nella testa di Cocker, del bassista Steve Mackey, del chitarrista Mark Webber, della tastierista Candida Doyle e del batterista Nick Banks.

Sono in parte titoli che mostrano un interesse dichiarato all’ambiente e alla natura quelli scelti per la tracklist, i quali richiamano questioni ecologiste, e che musicalmente viaggiano sincronizzati ma tutti con una propria matrice, come se il gruppo avesse voluto dare libero sfogo ai propri sentimenti, lasciandoci in dote un saggio delle loro inclinazioni e influenze, qui ben centrifugate e amalgamate.

Il risultato è un album piacevole, dagli umori cangianti, e per questo poco omogeneo forse, ma che ci fotografa degli artisti assolutamente in gran forma.

Già  l’uno-due posto in apertura è emblematico della natura ambivalente dell’opera, con una prima “Weeds” che destabilizza l’ascoltatore con uno stadium rock d’assalto, e l’altra – con aggiunta “The Origin of the Species” – che acuisce invece gli echi psichedelici, sconfinando nella sperimentazione e in derive trip hop futuristiche.

Un inizio che spiazza e che viene confermato dalla bizzarra “The Night That Minnie Timperley Died”, ancora incentrata su un rock – stavolta dai rimasugli electro – invero poco convincente.

Il primo sussulto dell’album ci arriva con il singolo “The Trees”, primo episodio a mostrare un esplicito riferimento alla natura e alla sua bellezza, con la musica che asseconda lo sviluppo agreste della trama, donandoci delle good vibrations.

Ormai siamo lanciati in orbita e, da qui in avanti, i Pulp suggelleranno il loro addio con una seconda parte dell’album capace di rinverdire gli antichi fasti.

Dalla caleidoscopica “Wickerman”, autentico apice dell’intero lavoro, che si dipana lungo otto minuti di musica grondante classe e ricchezza da tutti i pori, all’insolito inno di “I Love Life”, caratterizzante i tanti stati d’animo diversi che albergavano nell’autore, fino a planare nei territori più placidi, accoglienti e rassicuranti della bucolica “The Birds in Your Garden”, sono tutte testimonianze di una ispirazione ancora lontana dall’esaurirsi.

Delle rimanenti quattro tracce, tutte da citare, vanno sottolineate l’inaudita freschezza compositiva di “Bob Lind (the only way is down)” – che non avrebbe sfigurato ad esempio in “His ‘n’ Hers” -, la rinnovata apertura melodica (e l’arrangiamento sublime) della laconica “Bad Cover Version” (si dice ispirata a una disavventura sentimentale di Jarvis Cocker), la ninna nanna a tinte dark-folk di “Roadkill”, e infine il senso di pace trasmesso dalla beatlesiana “Sunrise”, che chiude il sipario su questa gloriosa storia sentenziando che “i ragazzi stanno bene” e hanno dato alla causa tutto ciò che era nelle loro possibilità .

In fondo occorre dire che il lascito dei Pulp è stato davvero grande, generoso e soprattutto appannaggio di tutti, poichè la loro musica aveva il potere di emozionare, far ballare, pensare, muovere e commuovere, oltrepassando generi e confini.

Pulp ““ We Love Life
Data di pubblicazione:  22 ottobre 2001
Tracce: 11
Lunghezza:  52:55
Etichetta: Island Records
Produttore: Scott Walker

Tracklist
1. Weeds
2. Weeds II (the origin of the species)
3. The Night That Minnie Temperley Died
4. The Trees
5. Wickerman
6. I Love Life
7. The Birds in Your Garden
8. Bob Lind (the only way is down)
9. Bad Cover Version
10. Roadkill
11. Sunrise