Non dev’essere per nulla facile immedesimarsi nell’esperienza degli statunitensi The Connells e capire come ci si possa sentire, dopo più di 35 anni di onorata carriera, spesa tra alti e bassi ma con autentici picchi di notorietà , a essere etichettati come un gruppo One Hit Wonder.

L’accezione, se siete avvezzi a un certo linguaggio del mondo musicale, si riferisce a quegli artisti noti generalmente per un solo, fragoroso e inequivocabile successo: nel loro caso si tratta ovviamente del favoloso singolo “’74-’75”, la cui storia è comunque particolare poichè, pubblicato dapprima nell’album “Ring”, datato 1993 e passato sotto traccia in Patria, si sarebbe imposto all’attenzione generale, esplodendo in tutta Europa, solo nel 1995.

Si tratta non di una “semplice” canzone, ma di un autentico classico del periodo, esempio di brano cui bastano pochi accordi per essere riconoscibile e canticchiato da tutti.

Prevedibile, anche se obiettivamente ingiusto, che il gruppo dei fratelli Mike e David Connell e del cantante Doug MacMillan venisse da allora associato a quel (pur pregevole) episodio, proprio alla luce del fatto che i Nostri in realtà  possono vantare una ricca e interessante discografia, in cui sono disseminati album per lo più piacevoli all’ascolto, senza che venga riscontrata alcuna caduta di stile.

Se i capolavori riconosciuti sono quelli della seconda metà  degli anni ottanta, quando – prodotti da un certo Mitch Easter, che tanto contribuì a lanciare nell’Olimpo dei giovanissimi R.E.M. – erano tra i favoriti delle college radio e pronti a conquistarsi un posto al sole nella nascente scena rock alternativa a stelle e strisce, è giusto ricordare come anche per tutti gli anni novanta (trainati certo da quel “Ring” che li fece svoltare a livello mainstream) il nome dei Connells fosse invero sinonimo di qualità .

Nella loro musica si sentivano echi dei già  citati R.E.M. e quindi, di conseguenza, del fresco sound caro ai Byrds (preminente infatti nei loro dischi l’uso delle chitarre Rickenbacker e dello scintillante effetto jingle-jangle), ma era possibile pure riscontrare affinità  con band inglesi coeve come gli Smiths e gli Echo & the Bunnymen; tradotto, per chi, come il sottoscritto, era solito abbeverarsi di musica dai suddetti connotati pop rock, i Connells rappresentavano qualcosa di gustosissimo, forti com’erano di melodie cristalline e di preziosi incastri chitarristici (ammetto una predilezione per i contributi dell’ormai ex chitarrista George Huntley, che aggiungeva un tocco psichedelico, laddove invece Mike Connell colorava il tutto di rimembranze celtiche, fino a creare un connubio perfetto).

Insomma, erano molto altro che una band da singoli usa e getta: nelle loro canzoni c’era sostanza, la stessa che viene naturale ritrovare ora tra le pieghe di questi undici pezzi (otto inediti, e tre ri-arrangiati dal disco precedente), pubblicati a distanza di ben 20 anni (lo scrivo in cifre, così rende di più!) dall’ultimo titolo in catalogo, il malinconico “Old School Dropouts”.

“Steadman’s Wake”si rivela essere, ascolto dopo ascolto, un lavoro davvero ispirato, genuino, vitale, con Doug MacMillan in stato di grazia e forse mai così consapevole dei propri mezzi, oltre che a suo agio nei vari registri vocali, abile sia quando si tratta di far emergere la parte più viscerale, rabbiosa, sia quando invece deve cedere il passo al tratto malinconico e romantico, che gli pare assolutamente nelle corde.

Brani pop rock dall’alto tasso melodico, come “Universal Glue”, dal caratteristico mid-tempo (il notevole singolo apripista “Really Great”), talora venati di country – un esempio per tutti: “Fading in (Hardy)”, ma pure la recuperata “Hello Water” fa bene la sua parte in tal senso – si alternano così a ballate dall’ampio respiro, esemplificate dall’emozionante track list e dalla dolcissima ode “Song For Duncan”.

Non citare almeno anche la suggestiva “Gladiator Heart” (un’altra cui il gruppo ha voluto dare una nuova chance) e una “Burial Art”, che suona maledettamente R.E.M. versione eighties, sarebbe fare un torto eccessivo alla loro bellezza intrinseca.

Fossimo al cospetto di una band esordiente, staremmo qui a rimarcare quanto meno l’immediata semplicità  e freschezza di queste undici composizioni che, in possesso di simili prerogative, non devono essere scambiate però per banali o superficiali; il fatto che a scrivere un album di questo tipo siano dei “giovanotti” più prossimi ai sessant’anni che non alla maggiore età , non fa altro che amplificare il valore del disco in oggetto, oltre che a rimarcare quello dei suoi protagonisti, mai troppo celebrati.

I Connells hanno infatti la capacità  di maneggiare la materia pop a occhi chiusi ma risultano comunque sinceri, autentici e mossi da un entusiasmo genuino, come fossero tutto sommato appagati da quanto raccolto nel loro cammino.

E anche se vedendoli dal vivo non li scambieresti mai per delle rock star, quello che conta per loro è da sempre la musica, la volontà  di esprimersi e di dare lustro ancora a tante polaroid ormai scolorite della propria vita.

Cantano sì la nostalgia, un tratto essenziale della loro vicenda artistica, ma non si fanno mai assoggettare ad essa, tanto da risultare straordinariamente efficaci e comunicativi anche nel 2021, alla faccia di tutte le One Hit Wonder di gente di cui non ricordiamo i volti e i nomi.

Credit Foto: Bryan Regan