Al loro terzo fatidico album, il collettivo di stanza londinese si conferma come una delle realtà  più effervescenti del panorama nu psichedelico attuale, riproducendo in questo “Ookii Gekkou” la fortunata miscela di diversi generi che li ha portati alla ribalta, almeno della critica internazionale, con il precedente “The Age of Immunology”.

Si può dire che vengono consolidati gli elementi caratterizzanti la band, che si potrebbero inquadrare in un doppio binario sonoro: il primo, quello più riconoscibile, comprende le canzoni come la prima “Big Moonlight”, vagamente badalamentiana, in cui lo spettro oramai maturo e non più assillante degli Stereolab pervade l’andamento della canzone, come nella successiva “Phase One Million” più dinamica e coinvolgente, brani dove l’austerità  della voce di Cathy Lucas rimane al solito in felice dissonanza con l’impatto sonoro sotterraneo, fatto anche di influenze tropicali, molto afrobeat, atmosfere come si diceva lynchiane, in una complementarietà  sempre più affinata.

L’altro scenario, quello dominante per fortuna,   è quello legato all’aspetto dell’improvvisazione, figlia anche delle rigidità  degli   spostamenti causa Covid – 19 che, riportano le cronache, hanno tangibilmente impedito ai membri di riunirsi per periodi lunghi, lasciando aperte le soluzioni più d’impulso ai singoli interventi: delle jam a distanza in pratica, di necessità  virtù, ma qui c’è della notevole qualità . Non che questo fosse un elemento mancante nei precedenti lavori, certo qui, si assiste ad una più marcata presenza, al limite del weird, come nel caso di “The Organism”, un sogno misterioso e malato, un delirio quasi da colonna sonora di Argento, con questo flauto canterburiano,   o di tutt’altra pasta nell’eccellente “In cucina”, una suite incrocio tra esotismi caraibici, impianto con tema jazz dei fiati da big band, grande lavorio sotterraneo della nostra Valentina Magaletti alla batteria e piacevolissima sensazione di divertimento, che è poi quello che si percepisce sia il collante fra i musicisti coinvolti.

Per fortuna, perchè poi questo divertimento dovrebbe essere restituito, ed in parte questo non avviene sempre in “Ookki Gekkou”, vuoi per alcuni episodi che pur nella loro compiutezza scivolano troppo velocemente (“Tub erupt”, “The lift”), sia per forse un non così convincente amalgama delle canzoni che fa dell’album una buona raccolta,   frutto di una volontà , si immagina, sia di riempire un repertorio che di una sana ispirazione con alcuni sprazzi di pura innovazione, che come si diceva rimane l’aspetto più interessante della band londinese, capace come poche altre di abbinare un alto livello di tenuta compositiva con la libertà  di forzare i generi in territori meno semplici all’ascolto, ma sempre intriganti.