Alle soglie del nuovo disco firmato Damon Albarn, “The Nearer The Fountain, More Pure The Stream”, proviamo a ripercorrere la carriera di uno dei musicisti della scena alternativa più innovativi e poliedrici degli ultimi trent’anni, escludendo i progetti beniamini, artefici del suo successo: chi è Damon quando non è più il brioso frontman dei Blur o il malinconico 2D dei Gorillaz?

Premessa importante: non aspettatevi una classifica ortodossa – altrimenti, avrei finito per trattare quasi esclusivamente brani dell’album “Everyday Robots”. Questo articolo vuole, perlopiù, risultare un itinerario tra i più intriganti progetti marginali che vedono coinvolto l’artista di Londra.

10. Dying Isn’t Easy
2000, da “Ordinary Decent Criminal (Soundtrack)”

Il nostro carissimo ha strizzato più volte l’occhio al mondo del grande schermo, cimentandosi con colonne sonore – “Ravenous” (1999), 101 Reykjavà­k (2002), “Lucy” (2014), ecc… – improvvisandosi, persino, attore in un paio di occasioni ““ ricordiamo le sue brevi comparse in “Face” (1997) e “Ordinary Decent Criminal” (2000). Il brano in questione salta fuori proprio da quest’ultimo film – noto come “Un perfetto criminale” qui da noi.

Si tratta di una ballata artisticamente resa piuttosto anonima da un arrangiamento che puzza di naif. Ma quel certo brio gioviale nel ritornello, che può illuminarci anche le giornate più avverse, ci induce a chiudere un occhio.

You left me
Just when I needed you

9. Sub Species Of An American Day
2003, da “Democrazy”

Una pubblicazione piuttosto bizzarra che si presenta come una carrellata di bozze sonore, registrate tra un concerto e l’altro, su un piccolo registratore a quattro tracce. Brani in stato embrionale (voce, acustica e synth) – un paio anche dal buon potenziale – che avrebbero dovuto essere ultimate per i Blur e i Gorillaz.

Non sappiamo se prenderlo come un testamento della pigrizia di Albarn o di uno strambo tentativo di sembrare “underground”, ma qualunque cosa essa sia… non ci dispiace poi così tanto.

Walking up an escalator
I might up or down?

8. Sunset Coming On
2002, da “Mali Music”

«Non abbiamo nessuna lingua comune al di fuori della musica e questo senso di affinità  spirituale. Ecco perchè adoro collaborare: smonta i pregiudizi. »

Dopo le registrazioni in Marocco per il settimo album dei Blur, Albarn tornerà  nel continente nero – ormai, meta spirituale – in Mali; un paese con cui stringerà  un rapporto così stretto al punto da finire per essere consacrato “re onorario” nel 2016.
Stupito dalla profonda tradizione musicale del luogo, Damon deciderà  di collaborare con musicisti maliani – tra cui il provetto Afel Bocoum e il maestro di kora Toumani Diabatè– e dar luce ad un gioiellino puramente esotico.
Tra esibizioni quasi documentative e altre più “albarnizzate”, spicca “Sunset Coming On” – sonorità  maliane su una struttura del pop nostrano – che avrebbe potuto essere un singolo di “Think Thank”.

But the sunrise we’ll see again

7. Poison
2012, da “Rocket Juice & the Moon”

Non capita tutti i giorni di ritrovare il batterista di Fela Kuti, il bassista dei Red Hot Chili Peppers e il cantante dei Blur insieme nella stessa stanza.
Un giorno, però, ciò accade.
Tutti e quattro, in una sala prove da qualche parte a Lagos, finirono per improvvisare spensieratamente, lasciando piena libertà  di sfoggio alle percussioni spumeggianti di Tony Allen, al basso esuberante di Flea e al genio trasversale di Damon Albarn.
Da questa jam session verrà  fuori un disco funk o, se preferite, un viaggio di sola andata per cosmi selvaggi ed esorbitanti.

Gradireste venire con noi sulla luna a sorseggiare del succo di razzo?

But when the battery’s gone then how how long have we got to run?

6. The Marvelous Dream
2012, da “Dr. Dee”

Rock, pop, hip hop, africana, funk… cos’altro adesso vorrà  mai propinarci il signor Albarn?
Opera teatrale (e non sto scherzando).

Arrangiamenti elisabettiani e strumenti rinascimentali – accompagnati da momenti più ortodossi che gli estimatori più fedeli non potranno che apprezzare – che vibrano in memoria della figura singolare del dr. John Dee; un matematico, alchimista e viaggiatore noto per esser stato alla corte di Elisabetta I d’Inghilterra.

In questo progetto, Albarn lascia defluire tutto l’amore irrazionale e innato che prova per la propria terra. Dichiarerà  al Guardian: «Ho sempre avuto sensazioni legate all’Inghilterra pagana. Ho ricordi chiari di quando da ragazzino rimasi preso da una serie TV su Robin Hood. Inoltre, ricordo il forte senso sobillatomi dalle immagini di vecchio monastero nel Sussex, vicino ad una casa in cui soggiornavamo d’Estate. è tutta una cosa personale: è il mio rapporto con questi aspetti dell’essere inglese. »

Ed è proprio qui che potrete respirare il petricore che s’innalza dai marciapiedi di Londra.

Levitating you’ve jumped around May queen
A time for revival or maybe just the marvelous dream.

5. Saturday Come Slow
2010, da “Heligoland”

Il duo di Bristol, durante la realizzazione del quinto album, ha pensato bene di chiedere ad Albarn una mano in studio, al che egli rispose:
«Mi piacerebbe collaborare con voi, ma non voglio ritrovarmi su uno dei vostri trip bristoliani lunghi due anni.
Lavoreremo dalle dieci alle sei, nel mio studio, per cinque giorni e si suonerà  solo in chiave maggiore, niente in minore. »

Una squisitezza intrisa d’oscurità  targata Damon Albarn e Massive Attack.

Do you love me?
Or is there nothing there?

4. Go Back
2014, da “Film of Life”

In “Music Is My Radar” – singolo dei Blur del 2000 – Albarn cantava: “Tony Allen gets what a boy can do, really got me dancing”.

Un rapporto di amicizia stupendo quello tra il cantante dei Blur e il batterista nigeriano – che con Fela Kuti ha dato luce alle infervorate sonorità  dell’afrobeat, esportandole in tutto il mondo. Un’amicizia che vede il concepimento in sala prove di diversi progetti insieme; tra cui The Bad, The Good & The Queen, Rocket Juice & The Moon e Africa Express.

Nel 2014, Tony Allen chiamò il suo amico londinese a Parigi per il compimento del proprio disco autobiografico, “Film of Life”.

“Go Back” è un pensiero ai profughi africani ed al rischioso viaggio in mare che intraprendono frequentemente per poter, poi, sbarcare sulle coste di Lampedusa.
Musicalmente, è impeccabile: un groove sopraffino che si allaccia al genio compositivo di Albarn.

Tony Allen è venuto a mancare nell’Aprile del 2020. Per ricordarlo, la canzone fu esibita da Albarn col gruppo in occasione degli AIM Awards (un’associazione inglese vicina alla musica indipendente).

When you can see the stained reflections of city lights
But you’re far away at sea of the satellites

3. Northen Whale
2007, da “The Good The Bad & The Queen”

Un supergruppo formato da Albarn, Paul Simonon dei Clash, Simon Tong dei Verve e dall’inseparabile Tony Allen (AKA l’afrobeat in persona).

Il titolo dal sapore spaghetti western – palese riferimento al cult cinematografico di Sergio Leone – è solo un’altra occasione in cui il suddetto esprime suo debole per il nostro Ennio Morricone, avendogli già  intitolato il b-side di “Good Song” (Blur) e la famosa “Clint Eastwood” (Gorillaz).

L’intrigante quartetto esordisce catapultandoci in un’Inghilterra diroccata, nel bel mezzo di una guerra.
Un pop abbacchiato e cupo, dal tocco psichedelico, da un prudente balsamo melodico e da un’attitudine underground che non riscontra la minima necessità  di strafare.
Dietro una produzione ridotta all’osso, c’è la mano di Danger Mouse (U2, Red Hot Chili Peppers, Gorillaz…).

Non si tratta, certamente, di un album pronto a sfondare le classifiche, e non si può dire nemmeno che si annoveri tra le più notevoli espressioni sperimentali del pop.
Tuttavia, rimane un lavoretto dal fascino molto singolare.

They only hear you in a dream
Lying by a sad machine
Sing on, love your melody

2. The Poison Tree
2018, da “Merrie Land”

Se l’esordio raffigurava un’Inghilterra logorata dalla guerra, il seguito ci presenterà  una terra in un passato idealizzato.

La curiosa combriccola si ricongiunge dopo un decennio, in pieno periodo Brexit; un evento che il Albarn ha vissuto con particolare desolazione, perdendo la familiarità  con una terra, ormai, in piena fase di cambiamento.
Così, scrive “Merrie Land”: una lunga lettera d’addio all’Europa.

Il disco deve molto alle sonorità  antiquate della music-hall – musica teatrale inglese risalente all’Ottocento – ed ai consigli di Lou Reed – risalenti alla collaborazione in “Plastic Beach” – che hanno consentito Damon di svincolarsi dagli schemi metrici convenzionali. Per non dimenticare il lavoro dietro le quinte di un certo Tony Visconti, produttore di lunga data di David Bowie.

«Sì, tutto molto bello. Ma, in fin dei conti, è di un album abbastanza trascurabile che si tratta, giusto? »
Non si direbbe, dal momento che qui dentro si possono ascoltare anche brani degni del songwriting più raffinato di Albarn. Vedasi le meravigliose – ribadisco nel caso non fosse abbastanza chiaro: meravigliose – “The Poison Tree” e “Ribbons”.

Ed eccovi servita un’altra creazione impregnata di melanconia inglese.
«è parte del nostro DNA. Direi che abbia molto a che vedere col clima. » (Paul Simonon)

If you’ve got dreams you keep
And you’re leaving me
I’ll see you in the next life

1. Selfish Giant
2014, da “Everyday Robots”

Il disco di un artista al culmine della propria maturità  musicale; nonchè annoverato dalla critica tra gli album indie meglio riusciti degli anni 10′.
Il titolo nasce da riflessioni concernenti l’uso della tecnologia da parte dell’uomo del XXI secolo e di tutti i comportamenti che un utilizzo malsano scaturisce; rendendoci, così, più androidi e meno umani – soprattutto, se si pensa all’isolamento che spesso comporta.

Arpeggi folkeggianti, piano e violini si incontrano con espedienti elettronici (loop, synth) ben dosati.
A donare una certa raffinatezza estetica ci penseranno il calore e la nitidezza della produzione, impreziosita dallo zampino di Brian Eno.
Ogni brano è permeato da attimi d’intensa sensazionalità  malinconica che non si ritrovano dietro l’angolo.

“Selfish Giant” è stata una scelta di cuore, soprattutto se si pensa all’improvvisazione di piano dal sapore uggioso all’inizio; nonchè, un momento emblematico della bellezza di “Everyday Robots”.

Ho i brividi solo a parlarne.

I had a dream that you were leaving
It’s hard to be a lover when the TV’s on
And nothing is in your eyes

Credit Foto: Linda Brownlee