Se non fosse che siamo qui a raccogliere i cocci di un anno e mezzo di sosta obbligata in attesa della prossima next thing, beninteso non solo del disco che ci cambi la vita o delle nuove mutazioni virali che ci ricaccino ancora dentro il tunnel, diremo che Liz Harris è un’artista intransigente, cocciuta e autoreferenziale, poco duttile e ferma ad una sola idea di musica.

Potremmo sicuramente anche obiettare che tutto questo darle addosso rimane comunque vero anche senza aver compreso che dopo un lungo periodo di assenza di emozioni e di assenza di spostamenti fisici ci si possa aspettare un album come questo “Shade”, un ulteriore tassello nel processo della carriera di Grouper di scarnificazione del concetto di canzone, che va oltre  il minimalismo musicale, sfiorando anche l’annullamento sonoro in alcuni casi, se non proprio la comprensione stessa di quello che stiamo ascoltando .

Il che porterebbe a dire che siamo ad un livello di provocazione bella e buona di un artista talmente piena di sè da rifuggire la realtà ,   propinandoci 4 accordi in croce ripetuti come se aspirasse a dei nuovi capitoli di un “Madcap laughs” di barrettiana memoria.

Tutto questo è legittimo se non   si alza l’oggettivo velo che il vestito monocorde e poco attrattivo di questo pugno di canzoni ci viene posto di fronte al nostro sentire, quel velo che una volta alzato dopo un attento ascolto ci impedisce di apprezzare la definitiva scoperta identitaria di un’artista entusiasta della sua incomprensione, in lotta controversa con la propria mente, parola più volte utilizzata dentro i titoli dei brani, in un tentativo sottile ma profondamente sincero di apertura della sua nudità , certo fatta di stringati versi, mai così abbarbicati alle parole che si incollano alle emozioni che ci catapultano dentro dentro il mondo semplice di Liz; ma non solo si viene immersi in questa osmosi sensoriale dei pensieri, ma la Harris vuole anche aprirci le porte delle stanze segrete che ospitano la genesi dell’ispirazione stessa, in canzoni come “The way her air falls” ad esempio, fatta di due frasi ma soprattutto di stop   and go nell’esecuzione, come una qualsiasi versione scartata buona per delle raccolte, ma volutamente inserita dentro un album come fosse l’originale.

“Shade” da questo punto di vista è facilmente riconducibile ad uno dei massimi tentativi di spoliazione di un artista nei confronti del proprio pubblico, questo sì gesto ambizioso, di una cantante però navigata, centrata e per niente sprovveduta nell’insistere in un folk psichedelico apparentemente statico, sostenuto da esilissime trame musicali, dove il flusso delle riflessioni dell’autrice viene sorretto non solo dalla melodia quanto dallo struscio, dalla marea sollecitata dal pizzicare le corde della chitarra in perfetto parallelismo con l’effetto drone ondoso alla Fennesz di episodi come “Followed the ocean” e Disordered Mind”, dove la tecnica ampliamente utilizzata nell’album, di   distanziare i microfoni dal punto di esecuzione deflagra il senso della solitudine artistica ma anche amplifica un’impronta sonora da concept   di nuda introversione, come se stessimo osservando appunto Liz dalla nostra percezione, come anche se fossimo stati allontanati alla giusta distanza di contemplazione di una messa in scena, spettatori di un momento unico, informale come lo scorrere del tempo.

Vi è anche un aspetto ulteriormente stimolante e quasi paradossale che emerge dai vari ascolti di “Shade”, che gioca sulla sua intrinseca dimensione di assenza per riempire il vuoto immaginario delle suggestioni emotive, ma che porta anche ad una riflessione altrettanto spontanea sulla riconoscibilità  almeno nelle canzoni più compiute come “Unclean Mind” o “Ode to the blue”, di veri e propri scheletri compositivi che non ci vuole molto a sognare in mano a gente come  My Bloody Valentine o Slowdive, cioè perfetti schemi da shoegaze romantico, ideali modelli per muri di chitarre che sormontano pensieri esistenziali; immagino che uno come Kevin Shields parta da questi preamboli compositivi, l’humus è lo stesso, la stessa esigenza espressiva.

Per dire, nasce tutto da questo spirito, nasce tutto da qui, chitarra acustica e il getto di frasi che escono come flutti isolati, poi magari uno le sussurra o ci crea attorno un wall of sound, ma non cambia l’incipit: questa la portata sotterranea che fa di “Shade” un album maturo e intrigante, per niente superficiale o povero, ma che sgorga da una forte identità  che trasborda al di fuori dei generi, un soliloquio lirico originale, un fascio di nervi tesi come la mano simbolica di copertina che ricorda i Low di “Trust”, altro rimando ad uno slow-core ancora più essenziale, l’essenza, certo problematica ma viva, di una creazione artistica.

Credit Foto: Nina Corcoran