Di gran lunga il miglior prodotto di Netflix Italia di sempre, “Strappare lungo i bordi” inscatola nel formato seriale digitale del colosso dello streaming la poetica, l’ironia e la malinconia dei fumetti di Zerocalcare – e, va da se, della generazione X.
La serie fa ridere, ricordare i tempi passati attraverso le loro icone, riflettere sulla condizione di una generazione di falliti, traditi da quella precedente, che avrebbe dovuto accudirli e invece ha rubato loro tutto. Ma, soprattutto, la serie commuove, al punto da far piangere.
La vera vittoria di “Strappare lungo i bordi” riguarda proprio la maniera in cui il fumettista ha trasposto le sue strisce nel formato serie. Non ha fatto copia e incolla, bensì ha adattato il suo modus operandi ai trucchetti delle serie tanto in voga oggi, giocando con una struttura narrativa a scatole cinesi, flashback e cliffhanger.
Venitemi a dire che i colpi di scena, invero crudeli, delle ultime puntate non sono un meccanismo profondamente seriale piuttosto che un retaggio del mondo dei comics.

Sorprende poi la bravura del fumettista anche come doppiatore, dato che Zerocalcare ha dato la voce praticamente ad ogni personaggio, colorando le loro parlate con i meravigliosi toni caldi del romanesco. Questo doppiaggio a me ha dato l’impressione di stare nella testa del fumettista intento a immaginare i dialoghi delle sue strisce nel mentre che le disegna.
L’unico personaggio non doppiato da ZC è il leggendario armadillo/coscienza del protagonista, affidato ad un Valerio Mastandrea in gran spolvero. Due o tre delle sue linee rimarranno certamente nella cultura collettiva. Non vi dico quali, tanto ci rimarrete secchi quando le ascolterete.

Molto bella peraltro la colonna sonora, che talvolta include brani cari ai nati negli anni ’80 (da Manu Chao a Tiziano Ferro) e talvolta piazza gemme indie capaci di incrementare il pathos dei momenti più emozionanti (gli M83, i Band Of Horses).

Da godersi tutta in un sorso, dacchè parliamo di sei episodi di una ventina di minuti scarsi l’uno.