Esiste una dimensione parallela, una versione del multiverso, in cui gli Wrens sono i Beatles di questa generazione.

Correva l’anno 1996, la band dei fratelli Whelan e di Charles Bissell è reduce da due album di buon successo che hanno fatto drizzare più di un’antenna.

Faremo di voi i nuovi REM!, disse loro la casa discografica; “giammai!” risposero loro, rifiutando un contratto a sei zeri, perdendo i diritti sulla loro musica e, beh, diventando un oggetto di culto per pochi eletti.

Da quel momento “sliding doors” a oggi sono passati 25 anni. In questa dimensione, gli Wrens non solo non sono i Beatles ma hanno fatto uscire un solo album in un quarto di secolo.

Ma se siamo qui a parlarne in questi termini non dev’essere stato un album qualunque.

“The Meadowlands” è il miglior disco alt-rock che non avete mai sentito, ma quella è un’altra recensione e quindi posso solo consigliarvi di recuperarlo, di ascoltarlo, di leggere il 9.5 di Pitchfork e poi di unirvi a noi devoti del sacro culto sotterraneo di questa band che da tre decenni ci trolla (il sottotitolo della loro homepage è “Keeping folks waiting since 1989”) e che ogni anno dal 2003 promette un seguito che è già  pronto, è ai ritocchi finali, un’ultima mixata ed esce, tranquilli eh, fidatevi.

Eppure qualcuno non deve averlo trovato così divertente, e quel qualcuno risponde al nome di Kevin Whelan. Se lui e Bissell sono i Lennon e McCartney della metafora, Whelan è senza dubbio Paul: maestro di melodia, bassista sottovalutato, straordinario gusto per il crescendo da pelle d’oca e, come vedremo, per il coup de theatre spiazzante.

Charles Bissell da anni si occupa dei social della band e da anni si intrattiene coi fan come uno di famiglia, come un amico, come se non fosse il messia in cui un ridotto ma selezionatissimo numero di appassionati ha riposto le speranze per il sacro Graal della musica indie contemporanea. Da anni prende tempo, scherza, si scusa, rassicura che ci siamo quasi.

Fino allo scorso 21 settembre. “The Wrens’ Kevin Whelan Releasing New Album as Aeon Station, Shares New Song”. Boom! Whelan, insieme agli altri due membri degli Wrens, decide che è stufo quanto noi di aspettare e sgancia la bomba. Il primo a esserne stupito e sconvolto sarà  proprio Bissell che, dall’interno della bolla a Fantasilandia in cui ha evidentemente abitato negli ultimi quindici anni, cade dalle nuvole e annuncia a sua volta che “boh, non so, immagino che a questo punto farò uscire un disco solista”.

Mamma e papà  hanno divorziato.

Senza litigare, eh, ma all’improvviso ci accorgiamo che l’amore era finito ed è un trauma.

A questo punto arriva il più cinico dei fratelli e fa presente “questo significa doppi regali a Natale!”

E il primo di questi regali si chiama appunto “Observatory”.

Gli Aeon Station (concediamoci il plurale nonostante sia il moniker del solo Kevin Whelan, con la presenza sporadica degli altri due ex Wrens oltre che della moglie Mary Ann Coronel) riprendono il discorso lasciato in sospeso nel 2003 e la qualità  dei brani non può che essere sublime: si tratta pur sempre di una selezione del meglio di anni e anni di una produzione che mai ha visto la luce, una sorta di greatest hits di pezzi mai usciti. Alcuni dei brani, tra cui svettano la struggente “Air” e l’epica “Fade”, hanno tutta l’aria dei futuri classici che meriterebbero folle oceaniche a scandirne in lacrime ogni sillaba. Ma anche se finissimo ad ascoltarli sempre e solo noi quattro gatti saremmo comunque quattro gatti felici e finalmente appagati.

Se siete tra quelli che in una recensione cercano i riferimenti ad altre band o ad altri dischi per capire se si tratta di qualcosa sulle vostre corde ho una brutta notizia: non ce ne saranno (per quanto sono sicuro possano piacere molto agli orfani dei primi Arcade Fire). Questo perchè gli Wrens, e di conseguenza gli Aeon Station, hanno sempre somigliato sempre e solo a loro stessi. Bastano le prime note di “Hold On” per accorgersene, per tornare con la memoria a “The House That Guilt Built”, traccia di apertura di “Meadowlands”, breve e intima premessa a fare da preludio alle successive esplosioni sonore, caratterizzate dall’inconfondibile chitarra che graffia lentamente e da linee di piano platealmente intenzionate a farci del male fisico per quaranta minuti.

L’assenza di Charles Bissell si sente, eccome se si sente, e se vogliamo trovare un difetto a “Observatory” sta proprio nel fatto che in alcuni momenti tende ad appiattirsi, mancando lo spunto geniale e imprevedibile. Oggettivamente, però, sono film mentali che ci facciamo proprio per via di tutto quello che ha portato a questo disco. Prendendolo per quello che è, isolandoci dal mondo e lasciandoci emozionare senza opporre resistenza, è probabilmente il miglior disco *rock* che ascolterete nel 2021.

“Observatory” è la testimonianza vibrante di un talento tenuto nascosto e represso troppo a lungo, un lavoro violentemente introspettivo in cui Kevin affronta a viso aperto rimpianti, possibilità  mancate e vite mai vissute: in tutto l’album ci sono accuse più o meno velate a un misterioso “you” che poi tanto misterioso non è; ma c’è spazio anche per a una vena di ottimismo (“i discorsi motivazionali che ti farebbe il tuo capo”, commenta scherzosamente in un’intervista), come a rimarcare che non è troppo tardi, che un “Better Love” è possibile, che finalmente è pronto a prendersi la sua scena, “finally free of pretending to be something we never wanted”.

Ora, sempre nel mio film, Kevin ha spostato la pedina sulla sua scacchiera e sta aspettando che Charles risponda con la sua mossa.

Con calma.
Con moltissima calma.
Come sempre.

Credit Foto: Ebru Yildiz