Sono sempre stato convinto della flessibiltà  del progetto KVB, un duo di post adolescenti troppo ben congeniati, ora dicono pure sposati, stabili in lidi spagnoli,   con l’aurea addosso di fare facilmente le cose difficili al limite della sfrontatezza, che già  la particolarità  di una coppia siffatta potrebbe a ragione legittimare, con quell’aria appunto da strafottenza da millenials di entità  superiore.

C’è chi infatti storce il naso di fronte a queste proposte che escono e si spandono come se sti ragazzi avessero travasato per mezzo di una sorta di porta esterna USB anni e anni di solido underground militante e con la fortuna dello sviluppo tecnologico riversato con la potente forza di un click tutto questo bagaglio dentro macchine fredde, così, un meccanismo di filtro temporale, una riduzione minuziosa  di tutto il meglio del post punk, drone music, shoegaze e electro condensato.

Ma basta guardarla, la faccia ipnotica e fintamente misteriosa di Nicolas Wood, un ambizioso fan sotterraneo della melodia pop, quella che sta al fondo delle canzoni, quella che da sempre ne costruisce lo scheletro, da sempre, dai Velvet ai Jesus MC, per capire che ci vuole anche di togliersi un pò di polvere e lasciare andare la sensualità  di Kat Day, per provare a dire di più, far finalmente sbocciare le personalità , anche se siamo al sesto album.

“Unity” è proprio questo, l’incontro fra melodie mai così dirette e semplici con una verve ancor più romantica e appunto affascinante del canto del duo, 10 canzoni in cui l’intreccio fra synth e chitarre non è più ancorato solo ad un rumoroso dipanarsi di un “wall of sound” post Sonic Youth, ma è un riuscito tentativo di stabilire nuovi confini e territori più sinuosi, che strizzano l’occhio nel campo synth pop alle ultime cose di Lindstrom surclassandolo (la title track), o ad un’idea elettronica dei Beach House per dire, finanche in modo più evidente ad un mood di leggera introversione degno dei milgiori New Order; ma a me pare molto sinceramente che  i nostri mancuniani abbiano semplicemente deciso di liberarsi dai freni, sovracaricando meno le architetture, il livello del volume, lasciando molto ben in evidenza le voci (qui bisognerebbe parlare dell’apporto di uno come Andy Savours al banco di produzione, uno che ha lavorato con Horrors e si sente, e Black Country New Road, forse disco dell’anno), specialmente quella di Nicolas, sempre morbidamente calda e misteriosa, plasmando un disco omogeneo, riconciliante,   avvolgente, sinuoso come quei pensieri preserali quando appunto si cerca il personale abito umorale che prepari l’esplosione di quello che succederà , forse, in seguito.

Ecco, “Unity” condensa questo spettro di piacevoli sensazioni, in un costante equilibrio fra ritmi quasi dance (“Future”) e quel sottofondo psichedelico, che sarebbe piaciuto ai Primal Scream più concisi, come se semplicemente abbassando i toni della loro proposta fossero riusciti a far coabitare nello stesso spazio di un disco tutta questa serie di influenze, senza che il risultato possa essere considerato derivativo, bensì fresco, ammiccando di volta in volta al già  sentito, ma avendo sempre quella sfuggevole sensazione di unità , brano dopo brano.