#10) SONS OF KEMET
Black to the future
[Impluse]

Shabaka Hutchings sempre più protagonista dell’evoluzione del progetto Sons of Kemet, un tentativo in perfetto equilibrio fra due binari, la ricerca ancorata al tribalismo della nuova verve jazz e le nuove frequenti contaminazioni alla scoperta della vera musica nera per il futuro.

#9) JANE WEAVER
Flock
[Fire Records]
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Nessuna voce femminile oggi sovrasta il candore della Weaver, sinceramente a suo agio nella sua versione psichedelica del pop che in “Flock” si spinge anche in territori r&b vicini a Prince. Per la cronaca, contiene forse la canzone dell’anno, “Heartlow”, ma anche le canzoni migliori che si possano ascoltare in qualsiasi momento, ogni giorno.

#8) SPACE AFRIKA
Honest Labour
[Dais]

Ambient dark mancuniano formidabile, un viaggio a diversi livelli di stratificazione, dove convivono il trip pop fumoso di Tricky, le lentezze dei Boards of Canada e un romanticismo inatteso, cupo e malinconico, calato in mezzo alla routine lavorativa che ci attanaglia, ma anche a quella che ci illude nei sentimenti, quella senza risposta alla domanda citata: “How do you know when you fall in love with someone?”

#7) WEATHER STATION
Ignorance
[Fat Possum]
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Si respira un perenne senso di riconciliazione ed elevazione ascoltando i brani di “Ignorance” dove Tamara Lindeman disegna un pattern raffinato e colto che delinea il contorno pieno di un pop adulto, che abbraccia la classe degli Steely Dan ma che rimanda soprattutto al miglior pop inglese degli anni 80, che sapeva confrontarsi senza paura nè ignoranza con lo spirito riflessivo dei suoi autori.

#6) MOIN
Moot!
[AD93]

Ossessivo ed ipnotico, “Moot!” alimenta un deisiderio di felice rassegnazione, un’immersione progressiva dentro il ritmo, il suono moderno in loop e field recordings di un trio di sperimentatori pandemici, che puntano gli occhi e gli strumenti, chitarre e batteria, al centro di tutto, senza freni, senza soste.

#5) SQUID
Bright Green Field
[Warp]
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In mezzo a tutto il revivalismo post punk di questi anni, gli Squid offrono la proposta più modernamente simile all’originale, del funk bianco dove si viaggia a ritmi serrati, con un’esuberanza giovanile che porta la band di Brighton su territori in sintonia con i Talking Heads più metropolitani, in un disco che dall’inizio alla fine non concede mai una pausa ad un’idea di condiviso divertimento, cosa rara.

#4) FLOATING POINTS PHAROAH SANDERS
Promises
[Luaka Bop]

Nove movimenti di promesse mantenute, distanti dalle previsioni iniziali sugli esiti della collaborazione fra Shepherd e Sanders, che si rifugiano in un minimalismo ideale, perfetto punto d’incontro fra la ricerca analogica del dj inglese che in questa dimensione rarefatta trova la potenza nella cura del dettaglio, e dall’altra parte il sax della leggenda jazz, a cui bastano poche note per donare il tocco denso di spiritualità  e magia all’album. Un disco esperienzale, che può trovare pace e sede imprescindibile nei nostri momenti più riflessivi.

#3) LOW
Hey What
[Sub Pop]
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A ben pensare, ha dell’incredibile questa costanza fiera del duo di Duluth nell’approccio al nuovo, ben lontano da tutto ciò che apparentemente suggerisce la loro musica, sotanzialmente minimale ed antica, eppure anche in “Hey what” riescono a dare un seguito al precedente splendido “Double Negative”, destrutturandone il mantello sonoro, arrivando a definire un flusso elettrico imponente, un soul gospel quasi ambientale fra noise e pattern elettronici, dove le voci degli Sparhawk trovano ancora maggiore incostrastata risonanza.

#2) DRY CLEANING
New Long Leg
[4AD]
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La noia elevata ad aristocrazia, spunti sulla routine fasulla dell’everyday people, con un tocco vezzoso del parlato di Florence Shaw che ricorda muse jazz anni 70 e che azzera tutti i discorsi sulla necessità  di una identità  del nuovo post punk, sublimandolo in una versione fra le più eccitanti del 2021.Il tutto su solide basi che incrociano i migliori PIL con gli Smiths più rozzi. Non guasta dirlo di nuovo: eccitanti!

#1) BLACK COUNTRY, NEW ROAD
For the first time
[Ninja Tune]
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Parte in modo spiazzante, ma il primo disco del collettivo londinese contiene un pugno stretto di canzoni che mirabilmente raggiungono vette di classicità , condensando altissimi livelli di lirismo, audacia compositiva,intensità , miscellanea di stili, dando forma e sostanza alle più alte esigenze di un rock ancora incendiario, che si imbeve del post rock così come lo abbiamo conosciuto, intingendolo all’interno della migliore tradizione alternativa americana degli ultimi 30 anni. E sono giovani, non possono che migliorare, anche se la pretesa è che non cambino.