Il re cremisi è morto. W il re cremisi!

Già , perchè, per coloro che non se ne fossero accorti, il re è morto. “Ancora?” – direte voi. Sì, perchè, il punto è che il re cremisi si reincarna. Muore e rinasce. Lo ha fatto tante volte.

Su questa ennesima scomparsa, non è che ci siano certificati di morte ufficiali. “E’ passato dal suono al silenzio” – ha detto Robert Fripp, commentando l’ultimo concerto del re, l’8 dicembre a Tokyo. Un po’ più esplicito è stato Tony Levin: “abbastanza probabilmente l’ultimo concerto dei King Crimson“.

Di sicuro sembra essere l’ultimo concerto di questa incarnazione del re: “il mostro a 7 teste”. Nessuno può però escludere che il re si reincarni di nuovo. Dite che Fripp a 76 anni è troppo vecchio? Ma Fripp non è il re cremisi, lui è solo il messia che ne annuncia il ritorno. Narra egli che più di una volta abbia offerto di allontanarsi dal gruppo o immaginato una formazione che lo escludesse. E in definitiva, anche il messia potrebbe reincarnarsi.  

Fatto sta che forse è giunta l’ora di tirare le somme e, a Indie for Bunnies, abbiamo pensato valesse la pena mettere in ordine la discografia del re cremisi con una Top Ten degli album in studio. Sono solo 13, non è stato difficile escluderne 3, anche se conosciamo l’intensità  della passione che anima i fan alla corte del re cremisi e sappiamo già  che molti non perdoneranno le nostre scelte. Discorso a parte andrebbe fatto per i dischi live e forse prima o poi lo faremo: sono ben 15 e nella discografia del re cremisi hanno un valore per niente inferiore alla produzione in studio.

10. In The Wake Of Poseidon
Island Records, 1970

Fatto il botto con il primo album, i King Crimson sembravano destinati a non sopravvivere a tanto successo. Ian Mc Donald e Michael Giles odiarono il tour americano e la vita on the road e comunicarono la decisione di andarsene a perseguire il proprio progetto, in una direzione musicale meno oscura e più gioiosa. Greg Lake si fece tentare dalla sirena di Keith Emerson e raggiunse con gli ELP un successo ancora maggiore. Ma Fripp e Sinfield non intendevano mollare la presa e lo dimostrarono mettendo fuori un secondo album a soli 7 mesi dal primo. “In the Wake of Poseidon” soffre irrimediabilmente il confronto con il suo illustre predecessore anche perchè sembra riprenderne lo schema nella successione delle tracce: tra episodi più intensi e quelli più melodici. L’opera ha comunque un suo valore. Introduce il genio di Keith Tippett al pianoforte, anche se qui il suo contributo non appare ben integrato nella musica come nei successivi dischi: è il caso di “Cat Food”. Con il mellotron sempre a palla, la title-track è qui una copia minore di quella del primo disco. Più fresche appaiono invece “Cadence and Cascade” (quasi una prova folk per Fripp alla scrittura); “The Devil’s Triangle (uno strumentale caotico ispirato all’opera del compositore tedesco Gustave Holst); “Pictures of a City” (un jazz progressivo con un groove originale). Un’opera di transizione, con echi della grandezza dell’esordio e anticipazioni delle tante direzioni verso cui il re cremisi si sarebbe evoluto.

9. The Power To Believe
Sanctuary, 2003

Continuiamo dalla fine, con l’ultimo album prodotto in studio alla corte del re. Rimasti in 4 (dei quali Fripp è l’unico inglese), reduci dal tour come spalla dei Tool, i King Crimson si presentano in uno studio di Nashville noto per aver dato i natali a tanta musica country, e con un giovane produttore come Machine, attivo nella scena hard e heavy americana e pratico di campionamenti e altri trucchi che ai tempi di “In the Court” non erano nemmeno immaginabili. Le premesse del disco appaiono così radicalmente diverse da quelle in cui il mito del re era nato decenni prima. Il tentativo, dichiarato, è di raggiungere la stessa giovane audience che stava decretando il successo trionfale dei Tool. La band si presenta a questa nuova sfida con materiale già  testato dal vivo e il risultato è molto più pulsante del deludente predecessore, “The Construkction of Light”. “Nuevo Metal” è l’etichetta che Fripp affibbiò alla musica di “The Power to Believe”, per distinguersi dall’emergente Nu-Metal dell’epoca, dei Korn o degli Incubus che pure devono tanto al re cremisi. “Eyes Wide Open” è una delle più belle ballate scritte da Belew per il re cremisi. Come notato da molti fan, non siamo di fronte al più grande songwriter che abbia militato nelle fila del re. Stressato dalle critiche, Adrian aveva già  cercato una nuova strada per le sue composizioni nel precedente disco, con “Prozakc Blues”. Qui appare ancora più convinto e anche in “Facts of Life” e “Happy With What You Have To Be Happy With”, la sua ricerca nella forma canzone si innesta benissimo con il tentativo di allargare i confini delle tradizioni metal e prog. Nel compiere questa operazione la band vi inserisce altresì elementi “esotici” che ricordano dischi del re cremisi di trent’anni prima; al contempo incorpora sound più moderni, specialmente su “Level Five”, “Power to Believe (pt. II)” e “Dangerous Curves”. Questi sono i momenti in cui il disco suona come i migliori King Crimson di sempre, incredibilmente “oltre il tempo” e consegnati all’immortalità . Nonostante il magro riscontro commerciale, forse il peggiore di sempre nella discografia da studio del re. Che forse convincerà  Fripp a terminare per sempre la serie dei dischi in studio, malgrado il re cremisi avrà  ancora molto da dire nei successivi 18 anni.

8. Thrak
E.G., 1995

“Il doppio trio”: dopo le due chitarre degli anni ’80, tutto si raddoppia anche nella sezione ritmica. Pat Mastellotto alla batteria e Trey Gunn al Chapman Stick si affiancano ai 4 di “Discipline” e nasce un nuovo sound, una nuova reincarnazione del re. Tre di loro li senti sul canale destro del tuo stereo, gli altri 3 sul sinistro e alla fine ci vuole orecchio per distinguere chi è dove. Nei 10 anni di assenza del re, era nato il progressive metal, un nuovo genere che vedeva i Tool e i Dream Theater tra i suoi alfieri, e i King Crimson del passato tra i suoi profeti. E il re cremisi che ritorna negli anni ’90 si accoda, al punto che non si saprà  più chi influenza chi: infinito sarà  da allora lo scambio di complimenti tra Tool e King Crimson che culminerà  nel tour del 2001 in cui il re fece da spalla ai popolarissimi californiani. David Bottrill, il produttore di “Thrak”, passerà  poi a lavorare con i Tool, per un buon lustro e un paio d’album in studio. Sound bello spesso, tempi dispari, fraseggi continui dei 6 che a turno si alternano sotto il riflettore, atmosfere cupe. Per diversificare, ecco qualche episodio più melodico vergato da Adrian Belew, che ama i Beatles e si sente. Un gran disco, che da solo basterebbe a giustificare la carriera di un’altra band, ma che per il re è solo uno dei 10 migliori.

7. Lizard
Island Records, 1970

Un disco contraddittorio, che contiene alcuni degli episodi minori dell’intera discografia del re cremisi ma che poi si riscatta ampiamente in altri momenti. Un disco minato da uno dei suoi protagonisti, Gordon Haskell, che vi suonò e cantò controvoglia, odiando la musica che suonava e i testi che cantava, seppure il risultato del suo passaggio alla corte del re non è poi da buttare via. Ma è la maturità  della musica composta e prodotta da Fripp, specialmente in “Cirkus” e nella suite che da il titolo all’opera, a conquistare ancora oggi.  “La maggior parte delle band ha una o due canzoni e quello che facciamo è rigurgitare sempre la stessa canzone in un’altra forma. Invece Robert molto spesso si dedicava a cose che erano un mondo completamente nuovo, sai? Ci vuole molto talento e coraggio per farlo. Le persone normalmente vanno sul sicuro… lui parte ed è pronto a fare qualunque cosa per spingersi oltre il limite.” – così il batterista Andy Mc Culloch  ricorda la verve creativa che animava Fripp.  Anni dopo, il chitarrista sottolineerà  poi il ruolo preminente nel progetto di Keith Tippett: il pianista icona della scena free e imprò del jazz bianco inglese di quegli anni. Un ruolo che va ben oltre quello che lui stesso si era scelto di session-man per i King Crimson, dopo aver rifiutato l’offerta di entrare nel gruppo a pieno titolo. Per anni il disco fu comunque accantonato dai fan e dallo stesso Fripp che lo definiva “inascoltabile”. Nel 40 ° di “Lizard” ci penserà  Steven Wilson, curando il remix dell’edizione dell’anniversario, a ridare smalto all’opera. Imperdibile, per chi possiede l’attrezzatura necessaria, il suo mix 5.1 surround che rivela l’intera palette sonora del disco e ci conferma che Wilson è un genio. “Per la prima volta, ho sentito la Musica dentro la musica” – disse Robert Fripp, che decise così di tornare dopo tanti anni a eseguire dal vivo i brani migliori del disco.

6. Islands
Island Records, 1971

La quarta reincarnazione in due anni di una band che Fripp e Peter Sinfield con l’aiuto di Mel Collins si sforzarono di tenere in vita, produce un’opera maestosa e malinconica. La più convincente dai tempi del clamoroso debutto. Il free-jazz già  avvertito in “Lizard” qui guadagna più spazio, con una predilezione per la sperimentazione alla Miles Davis e Collins inizia a prendersi la scena lanciando la sua successiva fortunata carriera di session-man. “Se “Lizard” rappresentava una festa sfrenata tra il rock progressivo e la scena jazz avant-garde britannica, “Islands” assomigliava di più a una riunione intima”, è stato scritto.  Tippett dà  qui il meglio di sè, aggiungendo armonie e spazio a canzoni che si fanno eteree, grazie anche alla bella voce di Boz Burrell e al drumming misurato di un talentoso batterista come Ian Wallace. Fripp scrive alcune delle sue più belle cose, come la title-track e ci consegna uno dei suoi più stupefacenti assoli in “Sailor’s Tale”. Sinfield scrive alcuni dei suoi testi più interessanti, consegnando tra l’altro con “Formentera Lady” un simbolo alla successiva mitologia hippie, ripreso al cinema decenni dopo. Una grande band quella di “Islands” della quale però, per qualche motivo, il messia si stufò presto, determinato a lasciar morire il re per farlo rinascere subito dopo.

5. Starless and Bible Black
Island Records, 1974

A quei tempi una band per rimanere sulla cresta dell’onda doveva sfornare dischi a ripetizione. Non c’era abbastanza materiale pronto per il seguito di “Larks Tongues” e alla fine “Starless and Bible Black” sarà  composto per oltre la metà  di materiale live a cui vennero tolti gli applausi. Eppure le idee non mancano. La band era sempre in tour, affiatata più che mai. John Wetton e Bill Bruford provvedono a una sezione ritmica compatta e versata nel Jazz-rock che stava esplodendo in quegli anni. Fripp ci regala momenti straordinari come l’assolo di The Night Watch”, che s’innesta su una canzone bellissima di Wetton, cantata magistralmente su testi immaginifici ispirati al capolavoro di Rembrandt. Poi c’è l’epopea metal di “Fracture”; l’improvvisazione live di “Starless and Bible Black”; il Math-rock di “Lament”, il funk di “We’ll Let You Know” che cresce poco a poco da una delicata improvvisazione; la stessa delicatezza che in “Trio” viene declinata in maniera classica. In quel momento, Fripp è un musicista straordinario ed eclettico che ha trovato i migliori compagni di viaggio possibili. “Starless and Bible Black” è il ritratto di una band che stava dando tutto, in un climax creativo in cui tutto era possibile. Ne usciranno consumati, ma con ancora abbastanza cartucce da parte per il successivo ennesimo capolavoro finale.

4. Larks’ Tongues in Aspic
Island Records, 1973

L’improvvisazione, l’esotismo, Jimi Hendrix, Bela Bartok, la malinconia melodica. Metti insieme tutto questo, affidali a un chitarrista che non si poneva limiti, un batterista che non ne voleva più, un bassista carico di ambizioni e di talento con una voce e delle canzoni che non avevano nulla da invidiare a Greg Lake, un percussionista filosofo e un violinista virtuoso. “Larks’ Tongues in Aspic” è un altro pugno nello stomaco, della stessa cifra del loro esordio tre anni e mezzo prima, che i King Crimson danno al pubblico e all’industria musicale. Ormai la Top Ten raggiunta dai primi due album non era più il loro territorio, ma Fripp, dopo avere resettato completamente il re cremisi, è determinato a continuare   a fare musica destinata non solo a rimanere nella storia, ma a cambiare la storia. Le due suite che danno il titolo al disco sono un manifesto chiarissimo nei suoi intenti che diceva che il re cremisi era vivo e vegeto e aveva tanto di nuovo da dare e da insegnare a tutti. Si rimane stupefatti di fronte a tanta magia creativa, a una musica che ha le sue radici ma che non assomiglia a nessun’altra. I King Crimson nel 1973 sono ormai oltre il Prog che in quel momento domina le classifiche e che pure hanno inventato loro; non a caso accolgono  Bill Bruford in fuga dagli Yes,  timoroso del fatto che il loro successo gli avrebbe impedito di progredire come musicista. E’ lo stesso anno di “The Dark Side of the Moon”, disco di cui non è da meno in quanto a sperimentazione, capacità  di suggestione e realizzazione tecnica, pur non avendone naturalmente la stessa immediatezza fruitiva. Il percussionista imprò Jamie Muir fa qui la sua breve e intensa apparizione nel mondo del re cremisi, disseminando perle, anche di saggezza a cui la band si abbevera per continuare la sua avventura, allorchè lui si ritirerà  in un monastero tibetano in Scozia: “il musicista è al servizio della musica, non il contrario“.

3. Discipline
E.G., 1981

Una delle varie pietre miliari che il re cremisi ha sparso sul suo cammino. Dopo aver vagato per oltre un lustro nei meandri della sua mente, della filosofia di Gurdjieff, nonchè delle scene musicali emergenti: il punk, la new wave, l’ambient. Dopo aver suonato e prodotto con Peter Gabriel, Daryl Hall, David Bowie, Talking Heads, tra gli altri, il messia si convinse che era ora di tornare a fare sul serio. La band che mise su richiamando Bill Bruford e due session man americani, Tony Levin e Adrian Belew, doveva chiamarsi “Discipline”, ma alla fine si accorse che erano i nuovi King Crimson. Ne uscì un’opera influenzata da tutto ciò che Fripp e i suoi sodali avevano respirato in quegli anni ma, allo stesso tempo e nella migliore tradizione crimsoniana, un’opera che rompeva i confini e fissava nuovi traguardi. Inglobando tradizioni esotiche come il Gamelan, o classico contemporanee come il minimalismo, il re cremisi, 12 anni dopo “In the Court” e 9 anni dopo “Larks’ Tongues”, tornò a dirci che tutto era possibile. Uno di quei dischi che non si sa da dove vengono e, soprattutto, dove possono arrivare. Anni dopo, Bill Bruford rivendicò di aver fondato il movimento Post-prog con “Discipline”: a differenza del Neo-prog dei Marillion che in quegli stessi anni replicava lo stile degli anni d’oro, il re cremisi non temeva di trasformarsi, di reinventarsi. Il prog è un’attitudine, come ripete Fripp, non uno stile; i King Crimson sono “un modo di fare le cose”. Dopo questo disco, i chitarristi di tutto il mondo sapranno che tutto è possibile; i bassisti si accorgeranno dell’esistenza del Chapman Stick e di un signore di nome Levin che, per abilità  tecnica, potrebbe non avere rivali al mondo; i batteristi apprenderanno che ci sono ancora infiniti modi di “servire la musica”. Tutti noi, fan della musica assoluta, sapremo che la nostra utopia è possibile.

2. Red
Island Records, 1974

Il canto del cigno di una delle migliori incarnazioni del re cremisi. Il disco di una band allo sbando, passata dai 5 membri di “Larks’ Tongues” ai 3 di “Red” in meno di due anni. Con un Fripp che aveva mollato la presa, in preda a non si sa bene che tipo di paralisi psicologica e spirituale che gli impediva di esprimere opinioni su qualunque cosa e meno che mai sulla direzione che doveva prendere l’opera. Un John Wetton all’apice della sua ispirazione che scrive canzoni epiche come “Fallen Angel” e “Starless” e prende in mano il timone della barca per condurre “Red” in porto e consegnarlo al vinile. Il disco contiene alcuna della musica più importante dei King Crimson: tra Heavy-metal, Jazz-rock, improvvisazione, estro strumentale, echi di “In the Court” grazie anche al recupero di Ian Mc Donald. E’ con lui che Bruford e Wetton volevano ripartire e i fan si chiedono ancora cosa sarebbe stato, ma il messia disse no: si smette qua e niente più King Crimson per i prossimi 7 anni. Sorprendentemente, nei primi anni ’90 si tornerà  a parlare di “Red”, quando Kurt Cobain lo menzionerà  come una delle sue influenze principali. Al pari di “in the Court”, siamo di fronte a musica epica e oscura a cui ancora per generazioni si guarderà  come a un punto di riferimento sia d’interi generi musicali che d’interi stati d’animo, individuali e collettivi.

1. In the Court of the Crimson King
Island Records, 1969

Che dire su un disco che ha influenzato tutti? Non solo gli ovvi Yes, Genesis, ELP e compagnia cantante, ma persino Kanye West che ha finito per campionarlo. Che dire di un disco che colse di sorpresa il mondo in quel 1969 ma che continua a cogliere di sorpresa chiunque vi si avvicini per la prima volta 5 decenni dopo? L’importanza di “In the Court” è tale che, in una futura apocalisse, se dovessimo salvare un solo disco per genere questo sarebbe l’ovvio candidato non solo per il progressive, ma anche per una miriade di altre incarnazioni della musica rock, dal Metal al Jazz-rock. All’inizio di quell’anno avevano esordito i Led Zeppelin: una rivoluzione sembrava, ma con l’occhio di oggi e senza nulla togliere loro, stavano solo reinterpretando il blues, laddove il re cremisi stava fondando qualcosa di completamente nuovo. Il re cremisi scelse di fare musica rock con il cervello, riprendendo e approfondendo la lezione di “Sgt. Pepper’s”, con una operazione speculare a quella che in America avevano fatto i Velvet Underground. Due sound e due attitudini completamente diversi, ma con una unica ambizione: la musica rock è arte e possiede un significato che, come Bach o Beethoven, sopravviverà  alle generazioni. Se oggi si parla di Rock classico, lo si deve all’ambizione di ragazzi come questi 5 che incarnarono la prima versione del re cremisi. Attraversò un solo anno, il 1969, dall’inizio alla fine. Ma bastò per porre le basi per tante cose, oltre che per altri 52 anni di King Crimson: una creatura cangiante che tratta la musica come un unicum senza confini di genere e in continua evoluzione.