Continua il viaggio nella memoria di David Bazan, ormai unico titolare del progetto Pedro The Lion che a sorpresa ha pubblicato “Havasu”, successore di “Phoenix” del 2019 e secondo capitolo dei cinque dischi che ha intenzione di dedicare alla sua infanzia e adolescenza. Dieci brani che trasportano a fine anni ottanta, quando per dodici mesi il giovane David si è trasferito (controvoglia) con la famiglia a Lake Havasu City in Arizona. Periodo breve ma fondamentale: quello del bambino che diventa improvvisamente teenager, con tutti i riti di passaggio e le paure del caso.

C’era una certa attesa e molta curiosità  per questo nuovo disco (soprattutto oltreoceano ma i fan italiani non mancano) come ha dimostrato anche l’NPR Listening Party andato in scena il venti gennaio. Segno che l’affetto per Pedro The Lion è ancora forte e genuino. Bazan sempre più one man band suona buona parte degli strumenti (una Les Paul scelta appositamente per queste canzoni, sintetizzatori, tastiere) affiancato da collaboratori ormai più che fidati: Erik Walters, Andy Fitts, il produttore Andy D. Park, il batterista Sean T. Lane che s’inventa anche uno strumento, il “bike” costruito con parti di metallo e corde montate su uno scheletro di bicicletta.

Rabbia, dolore, paura accolgono l’ascoltatore in “Don’t Wanna Move” e “Too Much” che raccontano con precisione cristallina la tensione del trasloco, il primo terribile giorno in una nuova città  e in una nuova scuola. Sono ricordi personali quelli del buon David ma è piuttosto facile identificarsi, parteggiare per il dodicenne Bazan mentre scopre la batteria dopo anni passati a suonare clarinetto e sassofono, i suoi flirt, la prima cotta, il primo bacio e il primo cuore spezzato (“Teenage Sequencer” e “Own Valentine”).

“Havasu” poggia su arrangiamenti meno rotondi, più minimali rispetto al passato forse perchè è stato composto in buona parte usando sintetizzatori e drum machine. Descrive l’incertezza, la sensazione di non poter decidere della propria vita, il peso di un’educazione religiosa e lo fa con tenerezza e candore tra la tenacia di “Making the Most of It”, la solitudine raccontata così bene in “Stranger” e la sincerità  della splendida “Good Feeling”. “I lost myself in Havasu” rivela alla fine David Bazan chiudendo trentanove minuti col cuore in mano e la mente già  al prossimo viaggio.

Credit foto: Ryan Russell