Avevano le idee chiare Louise Post e Nina Gordon nella creazione di questo secondo album dei Veruca Salt. Le fanciulle volevano muscoli e chitarrone: l’obiettivo era di togliersi di dosso la patina “indie” e sopratutto l’etichetta di “breedersiane” che si erano guadagnate con l’ottimo “American Thighs” (1994). Per fare questo ci voleva un produttore che sapesse maneggiare con cura le chitarre (rendendole rumorose ma pulite), che pompasse la batteria e mettesse in luce le melodie. Dal cilindro salta fuori Bob Rock e quello che era nei sogni delle fanciulle si materializza al volo. Certe chitarre paiono proprio quelle del “Black Album” dei Metallica, c’è potenza e grinta da vendere e Bob sa come incanalare il tutto. Le fanciulle stesse nei loro testi mettono proprio in luce la loro carica, mescolandola con turbamenti vari e mattinate da post sbronza. Però, lasciatemlo dire, a mio avviso tutto fila. La domanda è se anche per gli altri fan, per chi quindi aveva apprezzato (come me) l’esordio, questa patina di vernice scintillante potesse essere gradita. E in effetti più di qualcuno storce il naso, non trovando più lo spirito originario della band (qui all’ultimo disco in formazione originale, tra l’altro, prima della recente reunion).

Come avrete intuito chi vi scrive trova invece il disco decisamente piacevole. Il terzetto iniziale ci mostra una formazione bella arrabbiata e carica come una molla, davvero lontana parente di certe oscurità  dell’esordio. Sembra proprio che si sia voluto prendere lo spirito del singolone “Seether” e amplificarlo al massimo (“Don’t Make Me Prove It” ha una chitarra quasi alla Smashing Pumpkins). In realtà , andando avanti nell’ascolto, il piatto si fa più variegato, incrociando il ritornellone super pop in “Awesome” e “The Morning Sad” o le ballatone rock classiche “One Last Time”, “Loneliness Is Worse” “Benjamin”. Andamento più sbarazzino e con meno grinta in corpo (finalmente dirà  qualcuno) per “With David Bowie” e anche il lato oscuro che riemerge con la magnifica “Shutterbug”. Non tutto è così memorabile, penso a “Sound Of The Bell” che pare una b-side delle Go-Go’s o “Stoneface” che ce la immaginiamo cantata da James Hetfield nel 1991 o in “Load”, ma ci passiamo sopra perchè i coretti di “Venus Man Trap” invece ci piacciono proprio perchè fanno a pugni con quella chitarra che “più Bob Rock di così non si può” e poi c’è “Earthcrosser”, che ricrea forte il legame con il primo disco grazie a questi accendi/spegni perfettamente riusciti (anche se la produzione un po’ “metallosa” stavolta non ci fa apprezzare in pieno l’atmosfera).

25 anni dopo “Eight Arms to Hold You” si dimostra ancora meno bello del predecessore, ma svolge bene la sua funzione di album da macchina, che scorre piacevole e senza pretese quando si vuole alternare l’accendino alzato (ops, l’iphone) e l’occhio da tigrotto (da tigre mi pare troppo).

Pubblicazione: 11 febbraio 1997
Genere: Alternative rock
Lunghezza: 51:10
Label: Outpost, Geffen Records
Produttore: Bob Rock

1.Straight
2.Volcano Girls
3.Don’t Make Me Prove It
4.Awesome
5.One Last Time
6.With David Bowie
7.Benjamin
8.Shutterbug
9.The Morning Sad
10.Sound of the Bell
11.Loneliness Is Worse
12.Stoneface
13.Venus Man Trap
14.Earthcrosser”