Tutti hanno sentito parlare del rock progressivo, genere che negli anni ’70 provenne dall’Inghilterra e dominò le classifiche con band come i Pink Floyd, gli Emerson, Lake & Palmer, gli Yes. Ma è un genere, o piuttosto un’attitudine, come diceva il leader della band che, di fatto, fondò il genere nel 1969, Robert Fripp dei King Crimson? In otto capitoli, proviamo a fare una storia di come questa volontà  di fare musica rock “che duri” nel tempo, “progressiva”, nel senso di una volontà  di non sedersi mai sugli allori del successo e continuare a sperimentare, sia proseguita ben aldilà  del periodo d’oro del Prog degli anni ’70. Fino ai giorni nostri, arrivando al “Brixton Sound” e passando dall’Art-rock, il Post-punk, il Post-rock, il Progressive-metal.

5. Il Prog e’ morto. Lunga vita al Prog.

Finita l’epoca d’oro, i gruppi progressive vengono travolti dall’ondata del punk a metà  degli anni ’70. I King Crimson si sciolgono dopo un altro capolavoro, altri finiscono ingloriosamente la loro parabola o avviano una trasformazione che li riporterà  al successo con un’offerta musicale più vicina alle correnti musicali del momento. A cavallo del nuovo decennio, artisti post-punk come i Talking Heads  provenienti dallo storico CBGB di New York, finiscono per far proprio lo spirito innovatore dello stesso prog, mentre il re cremisi ricomincia da capo con “Discipline”.

Nel 1974, i King Crimson escono con il loro settimo album in studio, “Red”. “Rosso”, come la riserva del carburante. Fripp era entrato in una crisi personale che lo portava a prevedere la fine del mondo nel 1981. Se questa prima previsione non si sarebbe poi rivelata accurata, in quel momento il chitarrista ne azzeccò invece un’altra: il Prog classico, come era cresciuto e prosperato in quegli anni, era finito. Durante la registrazione del disco, Fripp andò ritirandosi in se stesso, sottraendo i suoi input dal processo creativo. Un’attitudine che non mancò di generare irritazione negli altri membri (John  Wetton e Bill  Bruford), che dovettero rimboccarsi le maniche e portare a compimento il lavoro. Per un risultato che oggi viene considerato un’opera maestra forse non inferiore a “In the Court of the Crimson King” (vedi la prima puntata).  Kurt Cobain, che negli anni “’90 contribuì a rifondare la musica rock guidando il movimento Grunge, avrebbe citato “Red” come una delle sue maggiori influenze musicali.  Ma un’epoca era finita. “Il gruppo si è sciolto nel 1974” ““ disse a posteriori Fripp ““ “Ed e’ allora che tutte le prog band inglesi avrebbero dovuto sciogliersi”. Tra i grandi gruppi del Prog inglese (vedi la seconda puntata), forse solo Yes e Pink Floyd poterono far finta di niente, continuando a realizzare buone vendite per qualche anno,  tra tentativi di rinnovarsi e crescenti tensioni all’interno dei gruppi. Gli ELP ebbero una involuzione di qualche anno, fino a terminare ingloriosamente nel 1978 con “Love Beach”. Un album, secondo Rolling Stone, “completamente patetico, in confronto al quale, lavare i piatti appare un atto più creativo”. I Jethro Tull invece continuarono e continuano a lavorare dignitosamente, ma scivolando inesorabilmente in basso nelle charts.

Proprio nel 1978, Bruford e Wetton (che mai perdonarono a Fripp lo scioglimento dei Crimson nel 1974) reclutarono Eddie Jobson (Roxy Music) alle tastiere e al violino e Allan Holdsworth (Soft Machine, Gong, The New Tony Williams Lifetime) alla chitarra, per formare un nuovo supergruppo. Gli U.K. pubblicarono quell’anno un disco eponimo che fa ancora gridare alla meraviglia i fan delle due sponde dell’atlantico (e del Giappone). La base ritmica di Wetton e Bruford riprende la dinamica fusion che aveva caratterizzato alcune delle ultime prove dei Crimson, ispirata ai dischi di Herbie Hancock. Su questo si innescano le melodie rockettare cantate da Wetton e le svisate di Jobson e Holdsworth. Il chitarrista si sarebbe rivelato con questo disco ad una platea più larga rispetto alle sue precedenti esperienze, con il risultato di fare innamorare di lui una generazione di giovani chitarristi, tra cui un certo Eddie Van Halen. Ma il supergruppo viveva una contraddizione d’intenti che opponeva Wetton e Jobson agli altri due. I primi volevano il successo mainstream. Wetton lo aveva inseguito con i Crimson e lo raggiungerà , come vedremo, negli anni “’80 con gli Asia. I secondi volevano fare musica a modo loro. Bruford era l’unico che difendeva la volontà  di Holdsworth di cambiare ad ogni data del tour il favoloso assolo di “In the Dead of Night”. Quella ripetizione da cui Bruford era fuggito negli Yes e senza la quale difficilmente si fanno certi profitti con la musica rock. Dopo 4 mesi di tour in U.S.A, Bruford e Holdshworth se ne andarono. Con Terry Bozzio (Frank Zappa) alla batteria, gli altri cercarono l’affermazione commerciale senza esito e si sciolsero in un anno.

Questo fu il dilemma dei superstiti del prog negli anni successivi, mentre i gusti del pubblico cambiavano. Continuare con lo stile degli anni d’oro o rinnovarsi?  “Gli Yes sono stati modernizzati e semplificati” disse Steve Howe nel 1980, quando usci’ “Drama”, un album che comprendeva due nuovi membri provenienti da una band disco-pop, i Buggles, al posto di Anderson e Wakeman. Non andò benissimo: per la prima volta dal 1971, non ottennero nemmeno un disco d’oro e il gruppo nel 1981 si sciolse. L’anno dopo, un nuovo progetto nacque dalla iniziale collaborazione del bassista  Chris Squire e del batterista Alan White con il chitarrista sudafricano Robin Trevor. Dopo il ritorno del cantante Jon Anderson e del tastierista Tony Kaye, il progetto avrebbe ripreso il marchio  Yes. La nuova incarnazione della band usci’ nel 1983 con “90125”, il più grande successo della loro carriera (3x Platino negli USA). Il nome era lo stesso ma la musica era diversa, “modernizzata e semplificata” ancora di più, in un territorio più simile al nuovo corso dei Genesis, con la differenza di una maggiore preponderanza della chitarra sulla tastiera, come strumento solista e che dava i riff. Ascoltandolo oggi, “90125”, pur non essendo da buttare, suona datato e artisticamente non all’altezza delle cose immortali che la band aveva fatto 10 anni prima. Altrettanto si potrebbe dire anche per i 6 dischi che i  Genesis (vedi la terza puntata) pubblicarono nella formazione a tre, tra il 1978 e il 1991 e qui i dischi di platino si sprecano. Il livello è sempre alto, con una buona dose di originalità , ma la semplificazione creativa verso prodotti di più facile fruizione e di maggior vendibilità , ricorda quella dei nostri Pooh (vedi la quarta puntata). Due dei Genesis, Phil Collins e Mike Rutherford, ottennero persino un parallelo importante successo da solisti, sempre usando stilemi pop. Tutt’altra strada aveva intrapreso il loro ex cantante, Peter Gabriel, sulla cui carriera solista ritorneremo nelle prossime puntate.

I canadesi Rush esordirono nel 1974 e dal 1980 in poi cominciarono a essere ospiti fissi delle Top Ten di Stati Uniti e Regno Unito. Se all’inizio sembravano una versione locale dei Led Zeppelin, svilupparono con gli anni uno stile peculiare di hard rock, con forti dichiarate influenze dal prog britannico (gli Yes, gruppo che introdussero nella Rock’n Roll Hall of Fame nel 2017 e i King Crimson sopra a tutti). Pur capaci di produrre canzoni “radio-friendly” che molto hanno contribuito al loro successo (come “Tom Sawyer”), il grande uso di sintetizzatori, l’esaltazione delle capacità  tecniche dei tre musicisti, l’uso della forma del “concept” e il ricorso a testi filosofici e fantascientifici, li riportano con decisione nel filone del Prog classico, malgrado il ritardo temporale della loro affermazione rispetto alle band inglesi.

I Pink Floyd con “The Wall” del 1980 tornarono ai livelli di vendita di 5 anni prima. Ad oggi 24 milioni di copie, a meta’ strada tra “The Dark Side” e il successivo “Wish you Were Here”. Grazie al genio di Roger Waters che ormai guidava il gruppo dittatorialmente, per la frustrazione di Wright (che se ne andò completato il disco) e Gilmour. Qui siamo ancora ben dentro il progressive nell’interpretazione floydiana, ma fortemente contaminato dai suoni del momento. Come la disco music, che informava il singolo “Another Brick in the Wall” e che diede il volano commerciale ad un album che sviluppò appieno l’idea del “concept”, fino a diventare un film.

Gli Asia, sulla carta, dovevano essere il supergruppo prog per eccellenza: Wetton (King Crimson), Palmer (ELP), Howe e Geoff Downes (Yes). La bella copertina del loro album eponimo d’esordio, del 1982, era fatta da Roger Dean, l’illustratore del mondo Yes  e  fu un successo straordinario: il più venduto dell’anno negli Stati Uniti; ad oggi ha tirato oltre 10 milioni di copie. Ma fu una grossa delusione per gli amanti del genere. Era Pop rock o Arena rock, che ricordava più i Journey o i Def Leppard che le rispettive band di provenienza; dominavano i chorus melodici e le tastiere, sotto le quali Steve Howe scompariva e Carl Palmer era l’ombra di se stesso. I quattro, se non fosse stato per la voce iconica di Wetton qui al suo meglio, erano irriconoscibili ai vecchi fan.  “Asia”, in un certo senso, significò la resa definitiva del Prog inteso come stile, afferente ad un certo periodo storico. Ma il successo del primo album non si e’ mai più ripetuto e retrospettivamente, il fatto che nel 2009 gli Asia faranno da spalla live agli Yes, non il contrario, dimostra che il tempo ristabilisce il valore delle cose. Gli Yes, dal 1995, non riuscendo più a ripetere il successo di “90125”, con Steve Howe che rientra al posto di Rabin, torneranno al prog classico, senza più l’ispirazione di un tempo nel nuovo materiale. Ma pur se con un pubblico sempre meno giovane, i loro tour annuali, basati sul vecchio materiale, continuano ad oggi a riempire i teatri.

Restando all’inizio degli anni “’80, mentre i fan del Prog classico si disperavano per la morte del genere, in realtà  il Prog era vivo e vegeto. L’attitudine “progressiva” non era morta.  A cavallo tra “’70 e “’80, il mondo della musica era cambiato. L’industria discografica, dopo il 1978, aveva smesso di crescere e le etichette si trovavano di fronte alla necessità  di spendere di meno per mantenere i profitti. In questo clima economico, erano pochi gli artisti o le band cui era concesso di chiudersi in studio per mesi, spendendo grosse cifre, come era tipico dei grandi nomi del prog classico. Solo i Pink Floyd dimostrarono con “The Wall” di potersi ancora permettere certe produzioni. Allo stesso tempo, le case discografiche non volevano più fare scommesse su artisti e stili complessi, costosi da produrre e dalla redditività  incerta.

Nel 1980 il singolo che vendette più copie negli USA fu “Call Me” dei Blondie. Una band che proveniva dal malfamato CBGB, localetto del malfamato Lower East Side di Manhattan, New York, che negli ultimi anni aveva tenuto a battesimo decine di band di un nuovo genere: il Punk. All’inizio, il Punk era inteso come la negazione del Prog: qualunque ragazzo che avesse qualcosa da cantare, poteva afferrare una chitarra, un basso e delle bacchette, senza alcuna conoscenza della musica e delle sue regole. Erano finiti i virtuosismi, i muri di tastiere sul palco, i suoni sintetizzati, le colte citazioni musicali, la pretesa di fare “arte”. Si era tornati a canzoni di pochi minuti con pochi accordi (come quelle dei Blondie), per registrare le quali non servivano lunghe e costose sessioni di registrazioni. A cui aggiungere molta sfrontatezza giovanile (“attitude“) e distacco da grandi temi filosofici o politici. Ma tra le band del panorama punk del CBGB vi sono anche i  Talking Heads  che nel 1980, pubblicarono il loro capolavoro:  “Remain in Light”.  Come scrisse Rolling Stone: un tentativo coraggioso e coinvolgente di individuare un terreno comune fra generi musicali spesso ostili e divergenti. E già  questo modus operandi ci ricorda il Prog di qualche anno prima. A differenza di altre band che calcarono il malfamato palco dell’East Side (ad es. i Ramones), i Talking Heads  a un certo punto decisero di cominciare una mutazione, abbracciando insieme ad altri (come i Police e gli U2)  il “post-punk”. Pur rimanendo all’interno della “etica punk”,   si allargavano i confini e le possibilità  del genere ad altri suoni e altri stili: Dance, World beat, Art rock, nel caso di “Remain in Light”. E nacque qualcosa di mai ascoltato prima. A ben vedere forse, la ribellione del Punk contro il Prog trova qui un punto di compromesso. Con la band newyorchese, il Punk evolve, si trasforma e diventa “progressivo”.

D’altronde, Robert Fripp aveva passato la fine degli anni “’70 a New York, frequentando l’ambiente e i musicisti del CBGB. Apparve sui dischi di Blondie e Talking Heads e produsse il suo primo disco solista, “Exposure” (uscito nel 1979 dopo due anni di lavoro), che conteneva diversi spunti (post) “punk”.  Nel 1981 ritroviamo Adrian Belew, chitarrista estroso e fuori dagli schemi di “Remain in Light”, nei riformati King Crimson di “Discipline”. Ed ecco un altro shock per gli amanti del “prog”: i nuovi King Crimson con una nuova line up che, oltre a Belew come front-man e cantante e secondo chitarrista (mai successo prima nel gruppo dominato da Fripp), vede il ritorno di Bruford e un nuovo bassista,  Tony Levin, richiestissimo session man per gente come John Lennon o Paul Simon. I nuovi King Crimson non suonavano in nulla come i vecchi. In realtà , non suonavano come nessun’altra cosa; vagamente potevano ricordare i Talking Heads. Per il resto, “Discipline” sembrava arrivato dal nulla come “In the Court of the Crimson King” 12 anni prima. E tuttavia, molti dei vecchi fan, dopo un primo momento di sbalordimento, cominciarono ad affezionarsi. I King Crimson erano diversi ma come quelli di prima: un gruppo che non aveva simili e a cui tutti guardavano per capire dove andare. Questa formazione, produrrà  fino al 1984 altri due dischi.