Un ritorno alla vita dopo l’incubo della pandemia. Queste le parole usate da Bryan Adams per descrivere il suo quindicesimo album, “So Happy It Hurts”, scritto e registrato in quasi totale autonomia nei mesi più intensi dell’emergenza sanitaria. Rinchiuso in casa e lontano dai suoi compagni di band, l’artista canadese ha messo su nastro tracce di voce, chitarra, basso e batteria e, con l’aiuto fondamentale di un produttore a dir poco leggendario (Mutt Lange, ovvero l’uomo dietro i più grandi successi di AC/DC e Def Leppard), è riuscito a dare una forma compiuta a un lavoro che prova a riportarci indietro di trent’anni, quando il soft rock conquistava i vertici delle classifiche di tutto il mondo.

Un disco schietto e senza fronzoli, breve e compatto, con cui Bryan Adams prova a rimettersi in pista dopo una serie di uscite un po’ opache, regalando agli ascoltatori una versione moderna del sound che lo ha reso celebre negli anni ’80 e “’90. I pezzi di “So Happy It Hurts” non hanno in alcun modo la forza dei classici del passato ma sprizzano vitalità  da tutti i pori. Particolarmente potenti sono la kissiana “Kick Ass” (con un’inaspettata comparsata di John Cleese dei Monty Python) e “I Ain’t Worth Shit Without You”, entrambe vicine all’hard.

Il cantautore dell’Ontario, dopo milioni e milioni di copie vendute in ogni angolo del globo, non punta di certo a conquistare nuovi fan o a piazzare una hit nelle heavy rotation radiofoniche. L’unico suo intento è consolare i vecchi seguaci incupiti e impauriti sopravvissuti a due anni di pestilenze, crisi economiche e incubi di guerra mondiale.

Questo tipo di arena rock dalla fortissima impronta mainstream – certamente innocuo, vetusto ma in qualche maniera anche energico ““ ha un qualcosa di confortante: non è niente di imprescindibile ma ti rassicura sapere che esiste. è il classico genere di musica che si vuole ascoltare in macchina: orecchiabile, leggera, non impegnativa ma mai banale, come ben ci dimostrano tracce riuscitissime come “Never Gonna Rain”, “You Lift Me Up” e “These Are The Moments That Make Up My Life”, un’ottima power ballad che sembra voler celebrare la vita calma e serena di una famigliola felice.

Che nessuno però si aspetti meraviglie da un album di certo non privo di riempitivi o cadute di stile: i “giochi” country rock al centro di “I’ve Been Looking For Love” e “Just About Gone”, tanto per fare un paio di esempi, il buon Bryan Adams poteva benissimo evitarli. Proviamo però a vedere il bicchiere mezzo pieno, considerando il fatto che stiamo parlando di un disco tutto basato sulla positività  e sulla necessità  di ritrovare l’ottimismo perduto. E allora godiamoci senza farci troppe seghe mentali le canzoni ben confezionate di questo “So Happy It Hurts”, un vero e proprio rifugio al trascorrere del tempo per tornare a sognare di concerti, innamoramenti, serate con amici ed estati indimenticabili come quella del ’69.