Quando i Red Hot Chili Peppers vogliono prendersi il loro tempo per produrre un album in studio lo fanno e basta. Possono passare anni, secoli forse, ma a loro poco frega. Sei anni, per la precisione, sono passati da “The Gateaway” ovvero l’ultimo album con il chitarrista Josh Klinghoffer.

Quando John Frusciante vuole lasciare la band lo fa e basta. Tutti possono esserne rammaricati, ma di sicuro lui di spiegazioni non ne dà . Quando però decide di ritornare, allora è lì che si deve esultare e parlarne.

1 aprile 2022: la band californiana, oramai consacrata in moltissimi generi diversi tra di loro, decide di uscire con la sua dodicesima fatica (prodotta, di nuovo, da Rick Rubin) dal titolo “Unlimited Love”, anticipato dal singolo “Black Summer”. Le rockstar degli anni ’80 (e certo anche dei ’90) hanno deciso dopo sei anni di silenzio di ritornare sulle scene, assieme al loro chitarrista di fiducia che ha donato al mondo alcuni dei più grandi riff di chitarra mai ideati.

Ammetto che oramai, per me, questa band ha fatto il suo corso. Eppure ero curioso di risentire un po’ quel sound tipico dei primi album, grazie alla mano di Frusciante che finalmente ha deciso di ritornare dopo aver realizzato che la sua carriera solista poteva anche finire. Effettivamente ritroviamo un po’ quelle atmosfere, anche se in realtà , vi dirò che il sentore è quello di uno “Stadium Arcadium 2.0” fatto di ballad, brani dove il basso di Flea e la chitarra di John si fondono perfettamente etc.

La prima traccia a dare il via alle danze è il loro primo singolo anticipatore: “Black Summer” possiamo riassumerlo con un grande mix di tutti i suoni che hanno fatto grandi la band. Il tutto impreziosito, come anche in molte altre canzoni, da una deviazione funky e danzereccia che certo non dispiace.

Questa atmosfera caratterizzata da un suono funk la si trova palesemente in “Aquatic Mouth Dance”, ma anche in “Poster Child” nella quale ricompaiono i bei coretti “Frusciantiani” da tempo perduti (ed imitati con poco successo dall’ex chitarrista Klinghoffer). Per quanto riguarda forse l’animo rock, quello duro, il tutto si concentra in “The Great Apes” a-tematica simulazione di una vita che non è reale da parte del protagonista. Qui il grande assolo di chitarra elettrica è forse la parte più interessante, alquanto dimenticato nei due precedenti lavori in studio della band.

Man mano che si va avanti, però, si ha la sensazione che un po’ tutte le canzoni siano uguali. E non so, forse il mio sentimento nei loro confronti è cambiato e questa cosa la notavo meno all’epoca (almeno fino al disco del 2006) ma bisogna dire che un po’ tutte le tracce sono segnate da una struttura strumentale, melodica e vocale praticamente uguale. Si può aggiungere che questo album viene, e deve essere, ascoltato per il grande ritorno di Frusciante e ancora una volta per le grandi doti tecniche di Flea al basso che come sempre impreziosiscono le tracce.  Era anche da un po’ di tempo che non ascoltavo un disco della durata di un’ora e più.

Quando i Red Hot Chili Peppers vogliono tornare in studio per produrre un album lo fanno e basta: può durare dieci minuti o vent’anni ma questo a loro non frega niente. Si è liberi di ascoltarlo interamente o solo in parte.

Quando John Frusciante torna nella band lo fa in grande stile pronto a ripescare tutti i grandi riff che lo hanno reso celebre nel mondo.

Quando, purtroppo, la band californiana torna in studio, certe volte (e questa lo è), sembra che voglia fare uscire un album quasi per contratto, e basta, producendo roba vista e rivista. Il loro prodotto sarà  anche frutto di jam session infinite, questo però porta, alla fine, a qualcosa di poco originale, comunque col loro marchio di fabbrica, certo, ma non basta. Ma a loro, sinceramente, non gliene frega niente e va bene così. Altrimenti non sarebbero i Red Hot Chili Peppers.

Photo Credit: Clara Balzary